lunedì 27 novembre 2017

ORIONE - PARTE I (Artemide, Apollo, Orione)





Il segugio trotterellò fuori dalla selva, si fermò di fronte ai due cacciatori e, aperte le fauci, lasciò cadere ai loro piedi la preda recuperata: un piccolo volatile dal piumaggio bruno, col becco lungo e robusto, e la freccia fatale ancora conficcata nel petto. Infine, si fermò a fissarli entrambi, con la lingua che penzolava fuori dalla bocca come un lungo nastro di morbida carne.
«Ci avevo visto giusto! È una beccaccia. Ben fatto!» Artemide sorrise al compagno di caccia che con un solo, precisissimo colpo aveva appena abbattuto il volatile. «Non è facile riuscire a individuarle e colpirle, tanto meno a quest’ora del giorno.»
«Ti ringrazio, mia Dea.» Lui le sorrise di rimando col petto gonfio di autocompiacimento: ricevere elogi dalla Signora della caccia non era cosa in grado di lasciare indifferenti. «Permettimi, però, di rammentarti che io non sono un cacciatore come gli altri e che il mio desiderio di predazione è molto più acceso di quanto tu possa mai immaginare. Un desiderio che non può assolutamente essere saziato da questo misero pennuto che ora giace ai tuoi candidi piedi.»
«Ahhh… sei sempre il solito!» Artemide colpì scherzosamente il compagno alla spalla con la punta dell’arco: un gesto che lo invitava a dare un freno alla propria boria e a raccogliere il suo trofeo. «Su, datti una mossa, grande cacciatore!»
Lui rise e dondolò la testa. «Brutale come un uomo, ma bella come la più desiderabile delle vergini. Non è facile starti vicino né innamorarsi di te, o sterminatrice di cervi. Ma ti prego, non cambiare mai, perché sei incredibile così come sei.»
Artemide inclinò il capo, confusa da quelle parole di ambigua interpretazione, e quando il compagno s’inginocchiò e schiaffò nel sacco della selvaggina la piccola preda lo osservò per qualche istante, con la fronte aggrottata e gli occhi ridotti a due fessure, come se lo stesse incontrando per la prima volta.
Si chiamava Orione ed era un gigante. Figlio del Dio Poseidone e della principessa Euriale di Creta, sfoggiava per natura un corpo altissimo, tutto muscoli ed energia, in cui vibrava una forza d’animo straordinaria che gli aveva permesso di sopravvivere a un passato burrascoso; un passato dai ricordi ancora troppo vividi in cui Orione frugava raramente, tanto doloroso e inquietante era riportare alla memoria la notte in cui quell’infame d’un re gli aveva fatto strappare gli occhi dalle orbite, precipitandolo nell’oblio della cecità. E quanto aveva sofferto allora! Quanto a lungo aveva camminato a piedi scalzi, inciampando e inciampando ancora su quegli interminabili viali ciottolosi che per un cieco sono sempre troppo duri! Non si era mai rassegnato all’oscurità e quando la Dea Eos, intenerita e innamorata, gli aveva restituito la vista sfiorandogli le orbite vuote con la tenue luce rosa dell’aurora, Orione aveva pianto per ore e ore, commosso dalla bellezza dei colori e delle forme, fin quando la sete di vendetta non gli aveva fatto recuperare il controllo. Allora era partito, deciso ad ammazzare il re infame che lo aveva accecato, e portando con sé null’altro che arco, frecce e un lungo coltello affilato aveva attraversato villaggi, campi coltivati e foreste impervie, seguito a ruota dal suo inseparabile segugio col quale aveva dato la caccia a ogni genere di bestia, riscoprendo il proprio animo cacciatore e una convinzione personale troppo a lungo dimenticata: nessun animale nato sotto la volta celeste di Urano, neppure il più feroce e terrificante, poteva sperare di salvarsi da lui.
Era un predatore nato, un abile e freddo sterminatore di selvaggina, ed era così, nelle vesti di cacciatore perfetto e selvaggio, che Artemide lo aveva incrociato tra gli alti alberi, mentre accucciato nel verde folgorava con una delle sue frecce un ignaro capriolo. E, colpita dal suo innegabile talento, la Dea non ci aveva messo molto a convincerlo a lasciar perdere quei folli propositi di vendetta per godersi, invece, qualche battuta di caccia in sua compagnia.
«Non ti tratterrò a lungo. Desidero solo divertirmi un po’ con qualcuno che sia degno d’essere chiamato cacciatore. E tu mi sembri il tipo giusto.»
Poche parole e, prima di rendersene conto, Orione stava correndo tra le querce insieme alla pallida Dea, alla ricerca di lepri e cinghiali da abbattere: l’inizio di un’inaspettata amicizia che, appena ora, stava mettendo in risalto i caratteri dei due, permettendo loro di andare oltre la superficie e conoscersi meglio. E Artemide, che era molto più sveglia e sensibile del gigante, aveva già cominciato a intuire quali fossero i suoi difetti e quali i suoi pregi, anche se certi punti della sua personalità ancora le sfuggivano, come le sfuggiva il significato di quelle ambigue parole appena udite che un po’ le sapevano di offesa e un po’ di lusinga. Ma non le analizzò più di tanto. Due, forse tre secondi; il tempo di vedere Orione rialzarsi e caricarsi in spalla il sacco colmo di selvaggina, e di nuovo si sentì serena. Il gigante era un tipo semplice e schietto, si vedeva. Celare chissà quale verità dietro giri di parole non era proprio nel suo stile e la Dea apprezzava la sua compagnia anche per questo.
«Non stai dimenticando qualcosa?» gli domandò con aria di rimprovero, notando che era già pronto a riprendere la battuta di caccia.
Orione aggrottò entrambe le sopracciglia, senza capire, quindi Artemide sgranò gli occhi e gli indicò il segugio con un impercettibile cenno del capo, come se non volesse farsi notare dall’animale. Allora il gigante afferrò. «Bravo, Sirio. Bravo.» Strofinò un orecchio al cane, che per reazione scodinzolò facendo frusciare i ciuffi d’erba incolta. Poi ritirò la mano e lanciò ad Artemide un’occhiata paziente, quasi paterna; uno sguardo che sembrava sussurrare: l’ho fatto per te, ma in realtà credo sia un’inutile idiozia.
«Sirio è un bravo segugio» disse lei, sorridendo. «E, come me, ha fin troppa pazienza con te.»
Orione rise e scosse la testa, senza rispondere. Non voleva inciampare di nuovo in quella stupida conversazione. Ricordava troppo bene com’era finita l’ultima volta.
(Le lodi rafforzano il legame e stimolano il cane a migliorare)
(Il cane svolge solo il suo dovere e non deve ricevere smancerie di alcun genere. Un cacciatore lo sa bene… ma una cacciatrice forse no.)
Com’era stato imprudente e stupido quel giorno! Aveva capito di aver esagerato nello stesso momento in cui la sua bocca si era chiusa a formare l’ultima sillaba di quella frase arrogante, ma ormai era fatta. Il viso sorridente di Artemide si era oscurato; l’aria calda del pomeriggio si era improvvisamente gelata e lui aveva sentito la gola seccarsi. Poi, il suo cervello si era come paralizzato e un fiume di scuse maldestre e alquanto imbarazzate aveva cominciato a traboccargli dalla bocca, come mosso da vita propria. Non ricordava minimamente cosa aveva detto e non gli importava. In qualche modo era uscito indenne da quella disastrosa situazione e ora non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.
«Che ne dici di andarcene a sud?» domandò Artemide, indicando alle proprie spalle. «Poco prima della spiaggia c’è un boschetto dove dimorano numerose famiglie di cervi.»
Orione si voltò dalla parte opposta, dove la foresta si faceva più fitta. «Per i cervi c’è tempo. Ora voglio prendere qualcosa di grosso
«Un cinghiale?»
«No.» Il cacciatore rivolse alla Dea un sorriso audace. «Un orso.»
«Un orso?» Artemide ridacchiò. «Incrociarne uno a quest’ora del giorno è ancor più difficile che vedere e abbattere una beccaccia. Ti conviene aspettare il crepuscolo e nel frattempo lavorare sul tuo passo.»
«Il mio passo? Che intendi dire?» domandò Orione, ora serissimo.
«La tua mira è ottima, ma il tuo passo è un po’ troppo pesante. Dovresti imparare a muoverti con più morbidezza o l’orso fuggirà molto prima che le tue frecce riescano a scalfirlo.»
«Oh, mia Dea!» Orione scoppiò a ridere. «Questa è proprio buona!»
«Non fare lo sbruffone!» La cacciatrice sorrise e colpì di nuovo il compagno alla spalla con la punta dell’arco, stavolta più forte. «Ricorda che sono la Dea della caccia, io! Dovresti ascoltare i miei consigli invece di prenderli alla leggera!»
Orione s’inginocchiò, le mandò un bacio con la mano in segno di riverenza e si fermò qualche istante a guardarla negli occhi. Poi si rialzò e, con un tono che sapeva tanto di promessa, le disse: «Prima del calar del sole io prenderò un orso. Vedrai.»
«Vedremo» rispose Artemide, divertita, e scortati dal fido segugio i due s’incamminarono nel folto della foresta, mentre dal cielo azzurro una regale figura continuava a fissarli, senza perderli d’occhio un solo istante.


 Apollo mollò le redini e incrociò le braccia, ritto sul suo cocchio dorato. I quattro cavalli dal respiro di fuoco percepirono a malapena la mollezza delle briglie e, trottando sul vento, proseguirono la propria corsa trascinando in cielo l’enorme palla di fuoco agganciata al carro: il Dio li aveva addomesticati alla perfezione, ma quel giorno avrebbero potuto anche fare dietrofront riportando il sole a est e lui non avrebbe battuto ciglio, purché gli fosse stato ancora possibile spiare la sorella e il suo giovane amico. Quella era la sua priorità, la sua ossessione, e lo era dal momento in cui aveva capito che quel borioso cacciatore venuto dalla Beozia non aveva alcuna intenzione di uscire dalla vita di Artemide, né lei aveva intenzione di cacciarlo. E questa situazione ad Apollo non piaceva. Non piaceva proprio per niente.
Allungò il collo, per vedere meglio ciò che accadeva sotto. I biondissimi capelli pettinati indietro dal vento; lo sguardo vigile e sospettoso, fisso sulle due piccole figure che, una di fianco all’altra, correvano tra gli alberi. Sentiva le loro risate, i loro commenti, persino il respiro affannato dalla corsa: attraverso il bagliore del sole, che dorato si faceva strada tra le fronde spargendo ovunque macchie di luce, Apollo poteva cogliere ogni dettaglio e, forte di questo straordinario potere, sapeva bene ciò che i due stavano cercando.
«Avanti, cacciatore diverso dagli altri» mugugnò fra sé e sé, sbeffeggiando il giovane. «Non essere timido e datti da fare a stanare quest’orso…»
Per un po’ non accadde nulla. Nel silenzio della vasta foresta, i minuti trascorsero lenti: dieci, venti, trenta, quaranta… uno scorrimento pigro e ripetitivo. Ma Apollo non si concesse il lusso di distrarsi e continuò a vegliare sulla casta sorella con fare vigile e sospettoso, quasi si aspettasse che da un momento all’altro Orione superasse il limite della sua cialtroneria e tentasse un approccio amoroso. Uno sviluppo delle circostanze che al Dio del sole non sembrava affatto improbabile.
Ad un certo punto, Artemide si fermò, s’inginocchiò lentamente e sfiorò il terreno con la punta delle dita. Orione, poco più avanti di lei, si girò a guardarla, poi fissò lo sguardo a terra e si chinò come se avesse a sua volta trovato qualcosa d’interessante. Apollo rizzò la testa, incuriosito, e dal cielo vide la sorella che con l’indice seguiva i contorni di un’impronta stampata nel terriccio.
Un’impronta di…
Orso. Artemide parlò a Orione rivolgendogli un’occhiata accesissima. Hai visto?
Il cacciatore scacciò con la mano il muso di Sirio, accorso ad annusare anche la sua orma dopo aver annusato quella della Dea, e la analizzò meglio. Per quanto abile fosse non era sicuramente veloce quanto Artemide a riconoscere le impronte di animali e detestava eccitarsi inutilmente. Ciononostante ci mise poco, molto poco, a farsi un’idea: quella era senza dubbio l’impronta di un orso. Guardò la Dea e annuì, serio, mentre l’istinto gli serrava le dita intorno all’arco di legno.
Artemide annusò l’aria e arricciò il naso, come se avesse colto un odore sgradevole. Si guardò intorno, si alzò in piedi e, stando attenta a non far rumore, si avvicinò a Sirio: il segugio aveva ora il muso sprofondato negli alti ciuffi d’erba che lambivano le radici degli alberi. Artemide si chinò e gli posò una mano sul collo. Orione le fu subito accanto.
«Feci di orso.» Il gigante indicò col mento l’ammasso di poltiglia marroncina che, col suo tanfo, aveva attirato a sé il cane. «Inconfondibili.»
«Sono ancora fresche» gli fece notare Artemide.
«Lo so.» Orione si alzò, rovesciò il braccio all’indietro ed estrasse una freccia dalla faretra, senza ancora incoccarla. «Non mi scapperà. Nessun animale può salvarsi da me.»
Indignato, ma in qualche modo anche divertito, Apollo schioccò la lingua. «Ma tu guarda con che presunzione questo sbarbatello fa mostra di sé di fronte ad Artemide! Da non credere!» La sua testa dondolava a destra e a sinistra, spinta da un prorompente moto di negazione: quell’Orione era troppo odioso per essere reale. Ah, ma vediamo! Vediamo come va a finire!
Il cacciatore guardò il suo cane negli occhi e fischiò: un fischio breve e acuto, e immediatamente il segugio si tuffò nella selva scomparendo alla vista. Orione e Artemide si scambiarono un’occhiata d’intesa e cauti come due cerbiatti gli andarono dietro, muovendosi a ridosso degli alberi. Dovevano diventare invisibili, fondersi il più possibile col verde della foresta, perché se davvero ci fosse stato un orso nelle vicinanze Sirio lo avrebbe trovato, gli sarebbe andato alle spalle e lo avrebbe spinto da loro, com’era stato addestrato a fare. E, per abbattere la sua preda, Orione aveva bisogno di coglierla di sorpresa, prima ancora che questa potesse percepire il suo odore. Non poteva concedersi di sbagliare. Non di fronte alla Dea della caccia.
Scivolarono via altri minuti. Apollo, con entrambe le mani ora posate sui fianchi, osservava i due strisciare nelle profondità boscose, l’uno al fianco dell’altra, e il suo volto era scuro di gelosia; il volto di un bellissimo Dio intento a spiare l’infame che, presto o tardi, avrebbe tentato di sottrargli l’affetto della sua adorata gemella. Inspirò a fondo, quando d’un tratto le sue pupille si dilatarono focalizzandosi su una cosa nera e grossa che si stava facendo strada tra gli alberi.
Era l’orso.
Apollo alzò le sopracciglia, mostrando una blanda sorpresa, quindi tornò a guardare i due e nel medesimo istante Artemide alzò la testa e fissò il carro dorato, come se da lassù qualcuno l’avesse chiamata. Apollo sussultò, colpito dall’inaspettato sguardo della sorella, e dopo un istante di smarrimento sollevò piano una mano, in segno di saluto. Artemide rispose con un sorriso tirato e frettoloso, che al Dio non piacque per niente, e subito lo ignorò tornando a concentrarsi sulla caccia. Apollo, che sapeva dell’imminente arrivo dell’orso, aprì istintivamente la bocca come per dire qualcosa e subito la richiuse. Gettò un’altra occhiata all’animale: infastidito dalla presenza del segugio nel suo territorio, l’orso stava avanzando verso i due e tra poco se li sarebbe trovati davanti.
Ma… cos’erano quelli?
Apollo sbatté le palpebre e si domandò come avesse potuto non cogliere quel dettaglio: accanto all’orso c’erano due piccole palle scure; due batuffoli col passo dondolante e allegro, che con immane goffaggine stavano avanzando tra gli arbusti. Il Dio arricciò nervosamente una ciocca di capelli intorno all’indice: ora più che mai gli importava di assistere allo svolgimento di quella situazione. E, appena un paio di minuti dopo, gli animali si palesarono ai due cacciatori.
Artemide e Orione, che durante l’avanzata si erano separati di poco l’uno dall’altra, si accucciarono tra gli alberi. D’istinto, la Dea scrutò prima i cuccioli poi l’orsa, e nel vederla le sue labbra si serrarono in una linea bianca: era un esemplare di dimensioni notevoli, col pelo bruno e gli occhi piccoli e vigili, da madre premurosa; un esemplare che avrebbe lottato fino all’ultimo barlume di energia pur di difendere la propria prole. Artemide incoccò la freccia, pur essendo decisa a non attaccare. Quella preda era di Orione, ma se le cose fossero andate male ci avrebbe pensato lei e subito glielo comunicò guardandolo negli occhi.
No, mia Dea. Serissimo, il cacciatore la invitò a mettere giù l’arco, con un cenno della mano. Non ce n’è bisogno. Non sbaglierò.
Artemide indugiò. Non voleva offendere Orione, ma non voleva neppure che quella splendida orsa, che ormai era nelle loro mani, fuggisse via lasciandoli là come due imbecilli. E per cosa, poi? Perché quello sciocco d’un cacciatore era troppo pieno di sé e perché lei, la selvaggia Signora della caccia, non si era fatta trovare preparata? Bella figura avrebbero fatto.
È solo per precauzione...
Dammi fiducia, mia Dea. Nessun animale può salvarsi da me. Ricordalo.
Artemide abbassò l’arco, lentamente.
«Ti credi proprio il migliore del mondo, eh?» Il biondo Dio scrutò l’avversario con odio e per la prima volta in tutta la sua lunga vita si trovò a fare il tifo per la preda. In fin dei conti, non era poi così improbabile che essa se la cavasse: Orione aveva perso istanti preziosi lanciando occhiatine e cenni ad Artemide, e forse l’animale stava già cominciando a percepire il suo odore, o almeno così sperava Apollo. «Fa’ vedere cosa sai fare, avanti…»
Orione incoccò la freccia, si passò la lingua sulle labbra e rivolse ad Artemide uno sguardo intenso; un luccichio d’iridi così tremendamente vanaglorioso
(Ammirami, mia Dea)
che Apollo sentì le guance incendiarsi. Infine si alzò. Piano. Pianissimo. Una letale e invisibile presenza nel folto della foresta. L’orsa non lo vide, ma sollevò il muso e annusò rumorosamente l’aria: pochi secondi e tutto sarebbe stato perduto. Orione prese la mira e tirò indietro la freccia, di più, ancora di più, e in quel momento Apollo lo trovò bellissimo: l’espressione virile e concentrata, la posa da arciere perfetto, il petto gonfio da maledetto sbruffone. Era splendido e si sentiva splendido. Ogni fibra del suo misero corpo mortale stava gridando ad Artemide di divorarlo con gli occhi, di stampare la sua epica sagoma nella memoria, perché non vi erano al mondo cacciatori meravigliosi quanto lui e lei meritava qualcuno alla sua altezza e insieme sarebbero stati una coppia bellissima e Apollo sapeva che lo stava pensando, lo sapeva, glielo leggeva addosso, e abbattuta quell’orsa lei avrebbe sospirato per lo stupore e lui le avrebbe sorriso come sorridono i maschi quando la loro preda abbassa ogni difesa e…
Un raggio di sole precipitò sulla terra.
Apollo lo scagliò con rabbia facendolo rimbalzare a nord, sulle acque di un lontanissimo ruscello celato nelle profondità boscose. E tra le fronde, alle spalle dell’enorme orsa, scintillò accecante la luce del sole. Un bagliore inaspettato e violento, come una seconda alba.
Maledizione!
Orione chiuse gli occhi e mollò il colpo. La freccia sibilò nell’aria come un serpente, superò di una spanna la testa dell’orsa e si conficcò nel tronco di un cedro, con un forte schiocco. L’animale sobbalzò per lo spavento, aprì le fauci ed emise un bramito infuriato. I suoi cuccioli si voltarono e fuggirono, scomparendo nella selva. Velocissimo, il gigante rovesciò il braccio all’indietro ed estrasse un’altra freccia dalla faretra, ma nell’atto d’incoccarla essa gli scivolò di mano e cadde per terra.
«Bravo imbecille!» Apollo scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con le dita. Avrebbe potuto ridere per tutto il giorno, tanto lo aveva esilarato rovinare la festa a Orione, ma quando vide Artemide uscire dai cespugli ed ergersi in tutto il suo splendore le risate gli morirono nel petto. Quant’era bella! Così virile ma al tempo stesso femminile in quel modo tutto suo! Apollo la contemplò incantato, mentre con vigore questa alzava l’arco, e lo stesso fece l’orsa zittendosi all’istante: riconosceva l’autorità della sua Signora. Ogni creatura della foresta la riconosceva. E, repressa la propria rabbia, la bestia si voltò rapidamente, decisa a fuggire.
Artemide tirò indietro la freccia; il cordino dell’arco le scricchiolò nell’orecchio.
«NO!» Orione gridò, adirato. La Dea si voltò di scatto verso di lui: si era appena rialzato, dopo aver raccolto la freccia, e si stava preparando a incoccarla. «È MIA!»
Artemide avvertì una fiammata d’irritazione: non era abituata a sentirsi parlare con quel tono. E, mentre era indecisa sul da farsi, Orione si gettò al suo fianco, con la freccia puntata contro la schiena dell’orsa. Allora la Dea abbassò l’arco per la seconda volta, con evidente fastidio, e lasciò che il cacciatore scoccasse. Fu un altro colpo a vuoto: l’orsa schivò la freccia, variando all’improvviso il proprio percorso, eppure Orione non si diede per vinto. Sfilò una terza freccia dalla faretra, la incoccò e scoccò ancora. Ma tra lui e l’orsa c’erano ormai troppi alberi, troppi rami, troppo fogliame, e la freccia finì col spaccare l’ennesima corteccia. Infine, l’animale scomparve nel verde.
«MERDA!» Orione gettò l’arco a terra e imprecò più volte; pochi attimi di rabbia pura, uno sfogo che gli sembrò assolutamente legittimo, e subito cominciò a recuperare il controllo di sé. Si passò una mano sulla fronte sudata e si voltò verso Artemide. «Io… ti chiedo perdono» disse, chinando la testa. «Non avrei mai dovuto urlarti in quel modo. Sono mortificato.»
«Già, non avresti dovuto. Ma non importa.» Artemide gli posò una mano sul braccio; un gesto che ad Apollo non sfuggì. «So che è frustrante veder fuggire una preda.»
«Io... non capisco.» Orione vide Sirio uscire dalla vegetazione e venirgli incontro con la lingua a penzoloni. Gli accarezzò la testa. «Era mia, ormai ce l’avevo in pugno! Ma, proprio mentre stavo per scoccare la freccia, un raggio di sole mi ha colpito gli occhi. Una specie di riflesso…»
Artemide annuì: anche lei aveva visto quella lama di luce tra le foglie. «Ormai è andata.» disse, battendo una mano sulla schiena del cacciatore. «Su, andiamocene verso la spiaggia a dar la caccia a qualche cervo.»
Orione le sorrise, più per farle piacere che per autentica voglia di sorridere, quindi raccolse l’arco e s’incamminò tra gli alberi seguito dal suo segugio. Rimasta indietro, Artemide alzò la testa al cielo e guardò il fratello, dritto sul suo luccicante cocchio d’oro: sapeva che si era intromesso nella loro battuta di caccia e con gli occhi lo rimproverò. Lui non se ne preoccupò affatto e la fissò di rimando, con un tranquillissimo sorriso sulle labbra, mentre il vento gli scuoteva il mantello e i biondissimi capelli. Artemide sospirò, scosse il capo e seguì Orione nella foresta.


La caccia ai cervi andò bene e la sera Artemide e Orione si trovarono seduti su di una spiaggia sassosa, a banchettare in compagnia delle ancelle di lei. Il cielo era nero, coperto di nubi; una notte senza stelle né luna. Le onde del mare si frangevano a riva con un morbido fruscio; sul fuoco scoppiettante, acceso per l’occasione, cuocevano le carni del secondo cervo abbattuto, mentre quelle del primo, già cotte, passavano da una serva all’altra insieme a coppe di legno grezzo colme di vino. S’imboccavano a vicenda, le ancelle, e di tanto in tanto imboccavano anche la loro Dea, posandole sulle labbra bocconcini di carne. Orione stava cominciando ad abituarsi a quelle dimostrazioni d’affetto, sebbene una parte di lui persistesse nel trovarle alquanto bizzarre: tutte quelle femmine erano un po’ troppo legate tra loro. Troppi baci, troppe carezze… in quel gruppo c’era qualcosa che andava oltre la semplice devozione e l’amicizia, e Orione, che non era una cima ma non era neanche stupido, ormai lo aveva capito. Ma quelle dinamiche gli andavano bene, anzi, benissimo. Era strano trovarsi all’interno di un gineceo del genere, perfettamente integrato come se la sua natura maschile non fosse ancora stata scoperta, ma era anche molto, molto eccitante; una condizione, quella di unico maschio, che lo faceva sentire potente e privilegiato, e per certi versi anche responsabile di quel gruppo, come responsabile di esso si sentiva la Dea.
La sintonia tra loro cresceva di giorno in giorno.
«Non bevete troppo!» disse Artemide sottraendo a una delle ninfe, con le gote già rosse, l’ennesima coppa di vino. «Domani andiamo a caccia sulle montagne e mi servite scattanti!»
«E lasciale bere, che vuoi che sia!» Orione si versò altro vino e lo tracannò tutto. Malgrado la caccia all’orsa fosse stata un fiasco totale era di buonumore e aveva voglia di ubriacarsi. Riempì di nuovo la coppa. «Bere dopo una dura giornata è un piacere che andrebbe concesso a tutti…»
«Sono le mie ancelle, non le menadi di Dioniso! Non sono abituate a bere tanto, quindi decido io quando devono fermarsi.» Per dispetto, Artemide gli diede un colpetto sul fondo del calice: uno sbuffetto che gli fece traboccare il vino dagli angoli della bocca. «Spero che il concetto ti sia chiaro.»
«Mpf!» Il gigante rise, mentre col dorso della mano si asciugava il mento gocciolante. «Colpa mia. Dimenticavo che a voi Dei non piace sentirvi dire cosa dovete fare…»
«Esattamente.» Artemide sorrise, allungò le gambe e posò i piedi in grembo a una delle ancelle, che con delicatezza cominciò a slacciarle i sandali e ad accarezzarle le caviglie. Quindi, sfilò il calice dalla mano di Orione, rovesciò il capo all’indietro e trangugiò il vino. Infine gli rese la coppa, vuota.
Orione ridacchiò e la riempì di nuovo, versandosi metà vino sulla mano. Aveva gli occhi lucidi; la mente sempre più annebbiata. «Bevi come un uomo, mia Signora...»
«Non sei il primo che me lo dice» rispose Artemide sorridente, mentre con le dita saliva ad arricciare i capelli della ninfa seduta al suo fianco, che subito poggiò la testa sulla sua spalla lasciandosi coccolare. «Tu invece, amico mio, bevi come un cinghiale...»
A Orione per poco non andò di traverso il vino. «Un cinghiale?!» ripeté.
«Sì, un cinghiale! Bevi e sguazzi nel vino come fanno loro quando trovano una pozza d’acqua nella foresta! Guardati! Sei tutto zuppo!»
Orione si passò una mano sulla tunica e la trovò umida di vino in più punti. Allora rise, ripensando al paragone, e Artemide e le sue ancelle risero con lui, e complice l’atmosfera frizzante e un po’ alcolica in pochi istanti tutti si trovarono a ridere a crepapelle, con le lacrime agli occhi.
Sarebbe stata una lunga notte. Una notte allegra e spensierata, con l’aroma di legna e carne abbrustolita che avrebbe fatto da sottofondo alle chiacchiere insensate del gruppo, o almeno questa era l’idea che si era fatta Artemide; un’idea che persistette fino al momento in cui Orione, stanco e completamente ebbro, non si sdraiò sulla schiena e cadde addormentato. E, con lui fuori gioco, l’atmosfera si raffreddò in pochi minuti: tra uno sbadiglio e l’altro si distese la maggior parte delle ancelle, riparandosi dal freddo della spiaggia con le folte pellicce, mentre le rimanenti continuavano a girare la carne di cervo sul fuoco e a gettare ai cani le ossa avanzate dalla cena. Artemide le guardò sommariamente: non sembravano avere sonno e le loro guance erano più bianche, segno che probabilmente non avevano toccato vino. E proprio mentre era là a guardarle, assorta nei suoi pensieri, queste alzarono tutte insieme gli occhi su di lei; occhi tondi, accesi d’interesse. Artemide sbatté le palpebre, confusa, e subito capì d’essersi sbagliata.
Le fanciulle non stavano guardando lei.
Stavano guardando dietro di lei.
E all’improvviso un bagliore aureo l’avvolse, sfidando la calda luce del fuoco, e una mano amichevole scese a posarsi sulla sua spalla. Artemide si voltò e vide Apollo.
«Oh, ma guarda chi c’è!» La Dea si alzò in piedi, incrociò le braccia sul seno e fronteggiò il fratello, palesemente maldisposta. «Mi pareva strano che non fossi nascosto da qualche parte a spiarmi…»
Apollo arrossì. In certe occasioni Artemide sapeva essere terribilmente diretta. «Bè, spiare è una brutta parola» rispose e, per camuffare il proprio imbarazzo, inclinò la testa in modo che la luce del fuoco gli saettasse sul viso. «Diciamo che presto attenzione a ciò che accade nel mondo…»
«Certo.» Artemide gli rivolse un sorriso sarcastico. «E a quanto vedo presti attenzione anche alle battute di caccia altrui.»
Apollo non rispose. Si allontanò di qualche passo e gironzolò intorno al fuoco fino a fermarsi davanti al gigante. Stava russando: le braccia abbandonate a terra; il capo poggiato accanto all’avambraccio di una delle ancelle, addormentata a sua volta. Il Dio lo guardò come disgustato e per un istante Artemide pensò che gli avrebbe tirato un calcio. «Il grande cacciatore…» mormorò fra sé e sé, mentre la sagoma dell’orsa in fuga nella selva gli si ripresentava sugli occhi come un bel ricordo.
«Lascialo dormire» gli intimò Artemide, allontanandosi dal fuoco come se volesse fare due passi. «Ha avuto una dura giornata.»
«Ah, certo!» Apollo rise di gusto e lasciò il gigante ai suoi sogni. Non si sarebbe svegliato neppure se in cielo fosse esplosa la folgore più tremenda di Zeus: era troppo ubriaco. «In effetti è molto faticoso farsi sfuggire una preda sicura come quella di oggi. Quante frecce ha sprecato tentando di colpirla? Tre?»
«Smettila.» Artemide si allontanò ancora. «Non sei divertente.»
Apollo le corse dietro, la prese per mano e la obbligò a girarsi. «Ho bisogno di parlarti.»
Come se non avesse udito, Artemide si liberò mollemente la mano e s’inoltrò nella foresta buia, fermandosi di fronte a un cespuglio di rovi. Là, cominciò a raccogliere delle more e a mangiarle svogliatamente. «Parlerò con te dopo che mi avrai spiegato perché hai mandato a monte la battuta di caccia di Orione.» Gli gettò un’occhiataccia. «So che sei stato tu. Non sono stupida.»
«Non oserei neppure pensarlo…» Apollo le posò una mano dietro la schiena. «Ascoltami. Sono preoccupato per te.»
«Cosa?» Artemide lasciò cadere le more, si girò e sorrise al fratello. Lui sentì il profumo di vino nel suo respiro e la cosa gli piacque e non gli piacque. «Preoccupato per me?» ripeté lei, come se non riuscisse a cogliere il punto.
«Sì. Non mi piace quell’Orione.» Apollo le prese entrambe le mani. «Dico sul serio. Credo che dovresti smettere di vederlo.»
«E perché mai?» Artemide si liberò ancora e lo fissò negli occhi. Era stupita e divertita, ma sotto sotto anche irritata. «È un abile cacciatore e io sto bene in sua compagnia.»
«Lo vedo che ci stai bene. Non sono mica cieco!» Apollo ebbe uno scatto di gelosia che gli fece diventare il viso tutto rosso. Poi abbassò la testa, sospirò e tornò a guardare la sorella. «Perdona il mio nervosismo. È solo che… Orione è innamorato di te. E questo io non posso tollerarlo.»
Artemide rimase immobile per qualche secondo, come pietrificata, quindi scoppiò a ridere. «Ma che dici, Apollo! Lui è innamorato di Eos, lo sanno tutti! Non dire scemenze!»
«L’avrà anche amata, ma ora ama te.»
«Ah, smettila! Non è vero.»
«Vero o no, a me quello non piace. È un gradasso, si mette perennemente in mostra di fronte a te e sono certo che un giorno non molto lontano tenterà di sedurti.» Apollo accarezzò la guancia della sorella con la punta dell’indice e subito abbassò la mano. «Lo farà. Sta solo aspettando il momento giusto. Credimi.»
Artemide gli lanciò un’occhiata diretta, accompagnata da un sorrisetto sornione.
Tu sei solo geloso…
Apollo si sentì sciogliere. La Dea era bellissima.
Sì. Sono geloso. Gelosissimo. E come potrei non esserlo?
«Le tue sono semplici paranoie. Orione innamorato di me… figuriamoci!» Artemide si girò, staccò una mora dal cespuglio di rovi, se la ficcò in bocca e tornò a guardare Apollo, stavolta con grinta. «E poi, ti sembra il caso di preoccuparti per me?» Si batté sul petto con il pollice. «Io sono Artemide! So bene come proteggere la mia virtù e come tenere alla larga eventuali pervertiti! Hai forse dimenticato quanto io possa essere forte e vendicativa?»
«No… certo che no.» Apollo distolse lo sguardo. «So che sei forte…»
Temo solo che tu possa innamorarti di Orione.
«Allora smettila con queste stupidaggini.» Artemide indurì lo sguardo. «E smettila di spiare me e Orione. Mi dà fastidio.»
«No che non la smetto!» Apollo, stritolato dalla gelosia, prese di nuovo le mani della sorella e le strinse tra le sue, avvicinandola a sé. «Ti prego, Artemide! Io non ti riconosco più!»
«Che stai…?»
«Mi sembri completamente impazzita!» Il Dio allungò un braccio e indicò il punto dove la ancelle riposavano intorno al fuoco. «Laggiù c’è un uomo ubriaco insieme alle tue cacciatrici vergini! Da solo! Un tempo non avresti mai permesso una cosa del genere!»
«Ma io mi fido di Orione…» Artemide guardò Apollo come se fosse lei a non riconoscerlo più. «Non oserebbe mai sfiorare le mie ancelle.»
Lui le accarezzò di nuovo la morbida guancia, stavolta con tutta la mano. «Ti prego…» sussurrò, resistendo al bruciante desiderio di baciarla sulla bocca. «Caccialo per sempre, prima che accada qualcosa di terribile.»
«No.» Artemide si liberò con determinazione. «Orione è mio amico e starà con me finché lo desidererà! E tu bada agli affari tuoi una volta per tutte!»
Apollo fece un passo indietro, a capo chino, ed entrambi sentirono l’aria della foresta farsi gelida e sgradevole. Artemide si strinse nelle spalle, innervosita, e lasciò passare ancora qualche istante di silenzio. Quindi si riavvicinò al fratello e posò entrambe le mani sulle sue spalle.
«Non preoccuparti per me. Me la so cavare…» gli disse con un tenue sorriso. Poi, prima che lui avesse il tempo di ribattere, gli stampò un bacio innocente sulla guancia, gli augurò la buonanotte e uscì dalla vegetazione. Il Dio si sfiorò con le dita il punto dove era stato baciato, poi uscì dalla selva e si fermò a guardare la sorella che faceva ritorno dalle sue ancelle. E quando la vide prendere posto accanto a Orione, ancora sdraiato a terra, le sue labbra si tesero in una smorfia cupa: parlarle non era servito a nulla e a nulla sarebbe servito farle quel discorso una seconda e una terza volta, magari utilizzando altre parole o un altro tono.
Al cacciatore avrebbe dovuto pensarci lui. Ormai non c’era altra soluzione.
E, presa la sua decisione, Apollo se ne andò.

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