Attenzione: il racconto contiene scene che potrebbero impressionare.
Ad Alcippe restava poco: tre, forse quattro minuti di
confortevole normalità fatta di passi, profumo di mare e caldi raggi di sole
tra i capelli; un lasso di tempo che una fanciulla di sedici anni non avrebbe
mai potuto apprezzare appieno perché scontato, ovvio, impossibile da
valorizzare nella sua banalità. Ma se anche avesse saputo con quanta efferatezza
il male l’avrebbe aggredita di lì a
una manciata di istanti, Alcippe non si sarebbe fermata a ringraziare gli Dei
per la quiete offertole quella giornata, per il buonumore, per le simpatiche
nuvolette a batuffolo che galleggiavano qua e là come sbuffi di fumo bianco,
nel cielo vasto e blu del primo pomeriggio. La porzione di esistenza tra la
pace e l’inizio dell’orrore sarebbe stata svuotata di ogni significato, perché
la giovane avrebbe pensato a una cosa sola: correre, correre e ancora correre,
fino a porre tra sé e il mare una barriera insuperabile fatta di case, recinti,
alberi e monti. Avrebbe corso fino a sentire il ventre piegarsi per i crampi,
fino a percepire alle proprie spalle una smisurata e rassicurante distanza che
le rendesse impossibile scorgere anche solo una goccia di quelle azzurrissime
acque marine, e solo allora, scoprendosi al sicuro, avrebbe permesso al proprio
fragile corpo di crollare a terra, e il sollievo dello svenimento sarebbe stato
dolce e avvolgente, come un abbraccio a lungo desiderato.
Ma niente di tutto ciò sarebbe mai accaduto e Alcippe,
inconsapevole e spensierata, proseguì per la sua via.