venerdì 3 marzo 2017

NATO DUE VOLTE - PARTE I (Zeus, Era, Hermes)



 


Seduto sul suo scintillante trono d’oro, Zeus, signore dell’Olimpo, ascoltava il proprio respiro nell’attesa che la calma e la lucidità tornassero a fargli visita. Un silenzio glaciale, quasi assordante, aleggiava nel grande tempio e la sua immota profondità aumentava a dismisura il peso del dramma che si era consumato di fronte agli occhi del Dio, appena pochi minuti prima.
Cosa ci faceva sulla Sacra Montagna? Perché era corso a cercare conforto nella quiete e nel vuoto, come se questi potessero aiutarlo a dimenticare ciò che aveva fatto? 
Quel tremendo silenzio, in cui ogni suo respiro cadeva pesante come un macigno, gli sembrava folle, insostenibile, e lo stava odiando sempre di più. Eppure, malgrado il cuore spaccato, il Dio non si muoveva. Il possente corpo era affondato sul trono, privo di forze; i gomiti poggiati sui lucidi braccioli; il volto nascosto dietro alla mano.
Basta…
Che avesse gli occhi aperti o le palpebre calate, Zeus continuava a rivedere quella scena, a riviverla, come se fosse ormai incisa sulla sommità della sua mente, al di sopra di qualsiasi altro pensiero e ricordo. La voce di Semele, la sua innamorata, che con femminile insistenza lo invitava a rivelarsi a lei in tutto il suo divino splendore; le morbide mani che gli accarezzavano le spalle; il profumo di fanciulla nuda e calda, pronta a concedersi a lui e a farlo impazzire… se solo lui avesse accolto la sua richiesta. E quella sensazione di ricatto, di ostacolo impossibile da oltrepassare, perché Semele era tanto bella quanto testarda e non avrebbe mai mollato la presa; e la rabbia, la voglia, l’impazienza… quella fiammata di passione violenta che dal petto era salita ad incendiargli la fronte e le guance…
E infine l’arrendevolezza. Il punto di non ritorno.
(d’accordo)
Il Dio prese a massaggiarsi la fronte corrugata.
(abbandonerò queste fattezze umane e ti mostrerò la mia luce, purché tu la smetta con queste sciocchezze e ti conceda ancora a me!)
Poche parole, pronunciate con evidente stizza, e il destino della fanciulla era stato segnato. Ma nell’udirle lei aveva sorriso d’entusiasmo e soddisfazione, come sorridono le donne quando riescono ad averla vinta, e senza attendere un istante di più lui si era tirato su col busto, aveva allargato le braccia e si era trasformato.
Basta… basta…
Con che indescrivibile velocità l’idillio amoroso era mutato in tragedia! Con che energia il potere ereditato da suo padre Crono gli era sfuggito di mano, non appena si era mostrato all’amata mortale senza trucchi né incantesimi! L’elettricità delle folgori era scoppiata nella stanza come un temporale; un boato terrificante aveva scosso le pareti del palazzo reale, le travi del soffitto, i pavimenti. Tutta Tebe aveva tremato e Semele, povera sventurata, era stata travolta in pieno da quell’ondata di luce e fulmini, divina essenza di Zeus, e il suo corpo nudo e bianco si era acceso come un tizzone.
Mai il Dio si sarebbe liberato di quelle immagini, di quei dettagli così dannatamente nitidi e mostruosi, o almeno così credeva, e mentre l’orrore gli scorreva davanti, le sue dita affondavano nelle palpebre chiuse, a strizzare gli occhi.
Innumerevoli erano state le morti a cui aveva assistito, prima ancora di prendere dominio dell’Olimpo, come innumerevoli erano stati i castighi e le sofferenze che aveva inflitto a tutti coloro che avevano osato alzare la testa e oltraggiarlo. Forte, severo e possente, non era tipo da lasciarsi impressionare facilmente dall’agonia, men che meno da quella umana. Eppure, quand’era innamorato, Zeus soffriva molto, e la morte accidentale di Semele, macabra come poche, persisteva nel tormentarlo come il peggiore degli incubi. La pelle candida che, cinta dalle folgori, si arrossava fino a ustionarsi; il corpo che si contorceva in preda alla sofferenza e allo sgomento; gli occhi fuori dalle orbite; la bocca spalancata, così spalancata che la mascella pareva quasi sul punto di dislocarsi; e le grida… quelle grida strazianti…
Zeus si stropicciò il volto con la mano e lo sentì più caldo che mai. Quanto tempo poteva essere passato da quando aveva lasciato Tebe? Cinque minuti? Dieci? Venti? Sentiva ancora l’odore di carne bruciata nelle narici; la ruvidezza di quella pelle fumante sotto le dita.
Dato un freno alla propria luce prorompente, mentre il fuoco scatenato dalle folgori andava divorandosi la stanza, con mano incerta aveva sfiorato il ventre di Semele, quasi non riuscisse a credere ai propri occhi e avesse bisogno di toccare la realtà per accettarla, e subito aveva sentito le labbra arricciarsi per il disgusto e il dolore. Ma, malgrado lo sconvolgimento, non aveva ritirato all’istante le dita e una vivace scintilla si era accesa nella sua testa; un barlume di consapevolezza, che ora contribuiva ad acuire il suo male.
Riprese a torturarsi la fronte, quando dei passi echeggiarono sul liscio pavimento in pietra del tempio.

Il Dio alzò lo sguardo e vide Era, sua moglie, venirgli incontro a testa alta. Le braccia incrociate sul seno; il lungo chitone color acquamarina con le bordature dorate che sulle gambe cadeva creando morbide onde; il prezioso diadema, appannaggio delle Dee maggiori, che tra mille riflessi di luce svettava sul capo fiero e fermo. La sua espressione era seria; lo sguardo solenne, quasi drammatico, e nel vederla avanzare così, con gli occhi colmi di freddo biasimo, Zeus capì che doveva aver saputo della morte di Semele, ma non se ne stupì. Probabilmente sapeva di lei da molto tempo e, dominata dalla gelosia e dall’orgoglio, doveva aver cospirato e agito affinché la bella fanciulla si separasse per sempre da lui e finisse scaraventata nell’Ade. E come in passato, anche stavolta doveva essere riuscita chissà come a portare a termine i suoi piani.
«Mio Signore…» disse la Dea, giunta al suo cospetto. «Hai una faccia che fa spavento.»
Il Dio la scacciò con un gesto della mano. Non aveva voglia né di parlarle né di vederla, e tanto meno di subirsi le sue sceneggiate da innocentina.
Ma Era non si mosse e più gelida che mai gli passò l’indice sotto al mento, obbligandolo a guardarla.
«Stai forse soffrendo per quell’inutile mortale? Per quella sgualdrina tebana con cui da un po’ di tempo scendevi a spassartela credendo di farmela sotto il naso?»
Gli occhi di Zeus s’ingrandirono per il dolore e la rabbia. «Allora è vero!» tuonò. «Tu sapevi e l’hai uccisa!»
«Io?» La Dea si portò la mano al seno e scoccò al marito un’occhiataccia di rimprovero. «Non dire sciocchezze. Non sono stata di certo io a incenerirla con una tempesta di fulmini.»
Quelle parole ferirono il Dio a fondo, smorzando all’istante la sua voglia di conflitto e facendolo precipitare di nuovo in pasto ai sensi di colpa. Dopotutto, c’era ben poco di che discutere; ben poco da controbattere. Aveva ceduto alle richieste di Semele e aveva perso il controllo del proprio potere, condannandola a una morte orrenda, e di questo non poteva certo incolpare sua moglie.
E la Dea, nel vederlo chinare la testa con fare esausto, capì che non sarebbe stata messa sotto torchio, né ora né mai, e un meraviglioso senso di soddisfazione mista a sollievo le si espanse nel petto. Ovviamente il suo sposo ci aveva visto giusto: era stata lei a spingere indirettamente la giovane verso la morte, tanto quanto lui l’aveva spinta direttamente, ed era stato semplice, quasi imbarazzante nella sua banalità. Le era bastato assumere le sembianze della fidata nutrice di Semele, e così camuffata rivelare alla fanciulla che l’uomo sconosciuto con cui trascorreva le notti era in realtà Zeus, il potente sovrano dell’Olimpo. Infine, per completare l’opera, aveva instillato nel suo cuore l’irrefrenabile voglia di vederlo senza filtri, in tutta la sua magnificenza. Il resto era venuto da sé e ormai faceva parte del passato; un passato doloroso al quale Zeus, a breve, avrebbe smesso di dedicare la propria attenzione.
«Ho visto Tebe tremare, so bene cos’è successo» continuò Era, passeggiando davanti al trono sul quale sedeva il marito. «A me non sfugge mai nulla, ormai dovresti averlo imparato. Eppure…»
«Vattene. Voglio stare solo.» Il Dio, tra dolore, fastidio e un mal di testa sempre più galoppante, tornò a stropicciarsi il volto. Si sentiva a pezzi e l’odore di carne bruciata nelle narici, che altro non era se non una sgradevole illusione, non accennava a svanire.
«Quanta sofferenza per una misera mortale…» La Dea si voltò di schiena, quanto bastava per celare a Zeus il suo viso, ora segnato da una smorfia di sdegno e profonda amarezza. Era gelosa, gelosissima degli intensi sentimenti che soggiogavano il cuore del Dio, ma al tempo stesso li detestava perché tante, troppe erano state le umiliazioni che lui, sposo fedifrago e libertino, l’aveva costretta a subire, e ormai l’amore che provava nei suoi confronti si era irrecuperabilmente mescolato all’astio, condannandola a uno stato di perenne insoddisfazione. «Sei ridicolo e la cosa assurda è che non te ne rendi neppure conto.» Sospirò adirata e tornò a guardarlo con deplorazione. «Stai qua a struggerti come se avessi appena perso l’amore della tua vita, l’unica creatura capace di darti gioia e piacere, quando tra qualche giorno non sarai neppure in grado di ricordare il suo volto o il suo nome. Come con tutte le altre.»
«Ora basta!» Zeus affondò il pugno sul bracciolo del trono. Non tollerava più quelle frecciatine, quella soffocante situazione, ed era intenzionato a rimettere la moglie al suo posto. Immediatamente. «So che sei contenta! Che sei venuta qua apposta per torturarmi, per sbattermi in faccia la tua gioia! Mi hai forse preso per stupido? Quindi piantala con questa sceneggiata e ridi! RIDI! So che vuoi farlo e te lo concedo, ma poi sparisci dalla mai vista!»
Il viso di Era si fece più serio che mai; i suoi verdissimi occhi scintillarono, colmi d’odio e malinconia. «Credi forse che gioisca della morte delle tue amanti?» La Dea si avvicinò al marito. Le braccia stese sui fianchi; l’atteggiamento improvvisamente aggressivo, di pantera pronta ad attaccare. «Credi forse che pulire e ripulire il mio onore di moglie, che tu ti diverti a insozzare con la tua incontrollabile lussuria, sia un gioco di mio gradimento? Che mi piaccia fare la parte della cattiva? Che mi dia gioia vederti godere tra le braccia di un’altra e vederti soffrire quando la perdi? Ti sbagli! Io non mi diverto affatto a scaraventare le tue amanti fuori dalla nostra vita e non ho nessuna voglia di ridere! MAI!» 
Interdetto da quello sfogo, Zeus rimase immobile per qualche secondo, indeciso se abbassare gli occhi o insuperbirsi e rammentare alla moglie la propria posizione di sovrano indiscusso, al quale neppure lei poteva rivolgersi con quel tono. Ma era troppo stanco, troppo provato per affrontare un inutile scontro coniugale e allora si limitò a sventolarle davanti la mano, scacciandola in malo modo dal tempio.
Era non disse più nulla. Arricciò il naso stizzita, incrociò le braccia e diede le spalle al marito, rimanendo così, a marcare col silenzio la sua evidente irritazione. Se ne sarebbe andata, perché con lui poteva tirare la corda solo fino a un certo punto, superato il quale doveva obbedirgli volente o nolente, ma prima avrebbe atteso un suo ritrattamento: pochi attimi d’indugio, non di più, per offrirgli la possibilità di mostrarsi pentito e tenderle una mano, trascorsi i quali l’avrebbe lasciato a piangersi addosso come desiderava.
E mentre i due erano là, a mal sopportarsi a vicenda per differenti ragioni, un frusciare d’aria, simile a un soffio di vento, s’infilò con energia dall’entrata del tempio.
Entrambi volsero lo sguardo al fondo, con blando interesse, e videro Hermes, il messaggero degli Dei, sfrecciare verso di loro sospeso a mezz’aria, con indosso i suoi leggendari sandali alati. Rapido e leggero, il giovane Dio percorse il naos in un batter di ciglia, e la Dea, che maldisposta com’era non aveva alcuna voglia di rivolgergli la parola, si decise finalmente a togliere il disturbo. Camminando a testa alta ed emanando quella particolare e gelida eleganza che da sempre la caratterizzava, si lasciò il trono d’oro alle spalle e quando Hermes le passò accanto ricevette il suo immediato saluto, al quale rispose con un lievissimo cenno del capo. Infine sparì, lasciando il figlio solo con il padre.
«Hermes, ragazzo mio…» disse Zeus, continuando a massaggiarsi le rughe della fronte. Sentiva ancora sulla pelle del viso il calore del fuoco che aveva avviluppato Semele ed era una sensazione che col passare del tempo pareva intensificarsi anziché diminuire, come il puzzo di bruciato nelle narici. «Che cosa desideri?»
«Ho consegnato a Poseidone il tuo messaggio, come mi avevi ordinato» rispose pronto il Dio. «Te lo avrei riferito già stamattina ma ho aspettato che facessi ritorno sull’Olimpo.»
Il ragazzo non notò subito il malessere che stava soffocando suo padre. Immaturo, distratto e perennemente in movimento fin dal giorno in cui era venuto alla luce, Hermes era un amante della praticità, degli aspetti più concreti, superficiali e appaganti dell’esistenza divina; un estimatore della vita facile e semplice, troppo impegnato a volare, rubare o imbrogliare uno o più dei suoi fratelli e sorelle per riuscire a fermarsi e cogliere ogni sfumatura dei complessi sentimenti altrui. Non che mancasse di empatia né di buon cuore: semplicemente aveva altro per la testa e la voglia di muoversi e divertirsi, tipica della sua giovane età, gli rendeva difficile entrare immediatamente in sintonia con chiunque non fosse spensierato, furbacchione e allegro quanto lui. «Dice che verrà alla riunione, ma non mi è sembrato affatto entusiasta» continuò. «Credo che avrebbe preferito un colloquio privato, ma è solo una mia supposizione…»
Zeus aggrottò le sopracciglia, i suoi occhi si assottigliarono. Non riusciva a ricordare quale fosse la questione a cui stava facendo riferimento il figlio, ma dopo qualche secondo i suoi pensieri, per quanto arrugginiti, gli restituirono dei pallidi ricordi. Atena e Poseidone che si litigavano il controllo di un’isola insignificante a ovest di Atene; il Dio che non voleva mollare, Atena che non voleva mollare, ed entrambi che pretendevano una sua decisione. Le solite stupidaggini, messe in piedi giusto per il gusto di litigare e fare la voce grossa; stupidaggini che ora, con la morte di Semele, a Zeus sembravano più che mai seccanti e banali.
«Padre, va tutto bene?» Improvvisamente il viso di Hermes si fece serio, la sua voce preoccupata.
Il sovrano alzò lo sguardo incrociando quello del figlio, e la limpidezza dei suoi occhi, così amichevoli e per nulla giudicanti, lo fece sciogliere. Dondolò la testa da una spalla all’altra, nascose il volto dietro alla mano e cominciò a raccontargli ciò che era successo a Tebe. Sputò le parole una ad una, con gran fatica, e giunto alla fine, nel ricordare a voce il corpo di Semele ustionato dalle fiamme, sentì la commozione farsi acutissima; il dolore abissale e nero. Imbarazzato per quel moto di emotività, a suo giudizio indegno per un Dio del suo livello, Zeus si passò una mano sugli occhi lucidi e si schiarì la voce, pur avendo terminato il proprio drammatico racconto, e solo allora si rese conto di quanto bisogno avesse avuto di dividere il peso di quel fardello con qualcuno.
«Mi dispiace…» Hermes parlò piano, sinceramente colpito dal triste incidente capitato al padre. Aprì la bocca per aggiungere dell’altro, sentendo di doverlo fare, ma subito la richiuse: aveva il timore di suonare inappropriato e banale, qualsiasi cosa avesse detto.
«La morte di Semele mi addolora e non so cosa darei per poter tornare indietro e non cedere di fronte alle sue richieste. Ma c’è dell’altro.» Zeus fece una pausa, buttò fuori un lungo sospiro e proseguì: «Qualcosa che al solo pensiero mi distrugge e che temo mi priverà del sonno per molto, moltissimo tempo…»
«Cosa, Padre?»
«Lei era incinta.»
Il messaggero trasalì, i suoi occhi si fecero grandi e tondi.
«Non me lo aveva ancora confidato, forse per timore d’un abbandono o chissà per quale altra ragione, ma io lo sapevo. Il suo ventre si era fatto più tondo, le forme prosperose, materne. Stava cullando la vita... la vita di mio figlio.» Il sovrano sollevò una mano, la stessa che aveva posato sull’addome fumante di Semele poco prima di far ritorno sull’Olimpo, e la fissò con amarezza. Pochi istanti di silenzio, poi un sussurro, quasi un intimo pensiero sfuggito al suo controllo: «E ora se ne sono andati entrambi.»
Hermes si portò una mano alla nuca mentre il suo sguardo, ora serissimo e pensieroso, indugiava sul volto del potente padre. Quella rivelazione lo aveva impressionato, eppure non riusciva ad avvertire né tristezza né desolazione, come se i cupi sentimenti che avrebbe dovuto provare fossero in ritardo, bloccati chissà dove. «No, no, no» affermò d’un tratto, scuotendo il capo con ferrea convinzione. «Questo non è possibile.»
Zeus lo guardò perplesso e anche un po’ indignato. «Dubiti forse della mia sincerità?» domandò.
«Oh, no! Non oserei mai e mi scuso se per errore ti ho dato questa impressione» replicò il Dio, con un sorriso rassicurante che subito svanì. «Però non riesco a credere che il frutto del tuo seme ceda alla morte con tale facilità, come una qualsiasi creatura terrena.»
«Stai parlando di un frutto che non era maturo…»
«Non ha importanza!» Hermes avanzò di un passo verso il padre. Gli occhi sempre più accesi; il corpo teso, come se il messaggero fosse pronto a spiccare un balzo e afferrare il Dio per le spalle. Era convinto di essere dalla parte della ragione e si vedeva. «Potrebbe essere ancora vivo. Mentre noi stiamo qua a parlare, nelle sue vene potrebbe ancora scorrere il tuo sangue divino! Non dare per scontata la sua morte solo perché la madre ha smesso di infondergli la vita. È di tuo figlio che stiamo parlando, non di un bimbo qualunque! Non può morire così!»
Ti sbagli, Hermes…
Ti sbagli.
Zeus cominciò a tormentarsi la barba con le dita. Si sentiva in precario equilibrio tra la voglia di credere al figlio e il desiderio di urlargli addosso e cacciarlo dal tempio. «Ti sbagli» mormorò a bassa voce, nel tentativo di autoconvincersi, ma l’ipotesi sollevata dal giovane Dio, quell’ipotesi tremenda, era troppo pesante per poter essere rimossa o ignorata. «Vorrei darti ragione. Lo vorrei più di qualsiasi altra cosa, ma ti sbagli…»
«Può essere. Forse hai ragione tu, forse la sua luce si è già estinta» rispose Hermes e un accenno di malinconia gli brillò negli occhi per un momento. «Ma se è ancora vivo, Padre… sappi che si sta spegnendo e che noi, pur sospettando, non stiamo muovendo un dito.»
Il figlio di Crono avvertì un brivido violento mordergli i muscoli e le ossa. Aprì la bocca e la richiuse.
Cosa avrebbe dovuto rispondere a Hermes? A cosa stava pensando? Cosa sarebbe stato giusto fare in una simile situazione?
Era nel caos e il dubbio di essere fuggito sulla Sacra Montagna lasciando a Tebe, in quel corpo di donna ormai defunto, il frutto di quell’amore condannandolo a morte certa, lo faceva sentire un mostro più di quanto non si sentisse già per aver ucciso l’amata fanciulla con la potenza delle sue folgori. Non poteva andare avanti così: doveva mettere la parola fine a quella vicenda e doveva farlo presto o sarebbe impazzito.
E finalmente capì ciò che andava fatto per alleggerire il peso di tutta quella storia: il ventre di Semele andava aperto e la piccola vita al suo interno estratta, augurandosi che non fosse troppo tardi. Ma al solo pensiero di rivedere quel corpo semi-carbonizzato, con cui fino al giorno prima aveva fatto l’amore, Zeus sentiva le braccia e le gambe farsi molli e men che meno riusciva ad immaginarsi con un coltello in mano, intento ad affettarne le povere carni, fosse stato anche per un fine superiore e nobile.
Non poteva farlo. Non lui.
Ciononostante avrebbe provato a dare a quello sventurato figlio o figlia una possibilità.
«Ormai sai come la penso, Hermes, e sfortunatamente il tuo spiccato ottimismo non è riuscito a intaccare il mio umore» affermò il sovrano. «Ma su un punto devo darti ragione. Non posso voltarmi e tentare di dimenticare senza aver avuto la certezza che questo erede, sangue del mio sangue, sia morto. Sarebbe un’ingiustizia imperdonabile.»
Hermes annuì e, senza crogiolarsi nella vanitosa soddisfazione di aver fatto cambiare idea al padre, domandò: «Cosa hai intenzione di fare?»
«Se è viva, quella creatura va estratta dal grembo materno prima che esso diventi una soffocante prigione, e questo è un compito che affido a te, figlio mio. Portala da me e io vedrò cosa farne.»
Il messaggero non batté ciglio e chinò la testa, per nulla sorpreso da quella dichiarazione: era abituato a farsi carico d’incombenze di ogni genere, là sull’Olimpo, e prendeva ordini da suo padre fin da quand’era fanciullo. Fece un salto e si fermò a mezz’aria, pronto a partire senza tanti convenevoli.
«Sii discreto, mi raccomando» lo ammonì Zeus. «Mia moglie non deve sapere di questo bambino quindi non farti vedere, se per caso riuscirai a tornare sull’Olimpo con un fagotto tra le braccia.»
«Non preoccuparti, Padre.»
«Io ti aspetterò qua. Ora va’, vola a Tebe.» Zeus lanciò un’ultima occhiata a Hermes; uno sguardo quasi supplicante. «E fa presto» aggiunse.
Il giovane Dio piroettò nell’aria come un’acrobata e sfrecciò a tutta velocità fuori dal tempio, senza più guardarsi indietro.



Nessun commento:

Posta un commento