Un’atmosfera elettrica, satura di ansia e timore, avvolgeva Tebe dall’alto stritolandola nella sua invisibile morsa. Le case di pietra grezza erano vuote; le strade gremite di tebani terrorizzati che gridavano e piangevano con le mani tra i capelli. Tutti avevano sentito il terremoto; quel tremendo boato che aveva fatto vibrare ogni mattone e che in un attimo li aveva scaraventati fuori dalle loro piccole abitazioni e botteghe, a cercare l’esterno. Era stato terrificante, ma anche rapido e squilibrato, come se tutta la potenza della scossa si fosse concentrata in un unico punto della città: il palazzo reale di Cadmo. Perché malgrado la paura e la violenza del terremoto, nessuna casa di Tebe era crollata; nessun tebano era rimasto ferito. La sciagura si era abbattuta proprio sulla dimora del re ed era là, alle mura del palazzo, che ora convergevano gli sguardi lacrimosi dei cittadini, e tutti si chiedevano cose ne sarebbe stato della città se l’amato fondatore e la sua famiglia fossero rimasti vittime di quella disgrazia. Dopotutto, lo spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi non lasciava presagire nulla di buono: una parte del palazzo, quella più a est, dove si trovavano gli alloggi privati della principessa Semele, era irrecuperabilmente danneggiata e stava per collassare su se stessa; dalle finestre uscivano fumo nero e lingue di fuoco. Pochi minuti e di essa sarebbero rimaste solo macerie.
Giunto
a Tebe, Hermes capì immediatamente dove doveva andare. Saettò sopra la folla e
la frenesia di quella calca gli fu subito addosso: bambini urlanti, cani che
abbaiavano, donne dal viso rosso e lucido che singhiozzavano e imploravano gli
Dei. Il messaggero non li degnò di uno sguardo e si lanciò in direzione del
palazzo; una scheggia dorata nel blu del pomeriggio. In pochi lo videro e lo
riconobbero, tanto fugace fu la sua apparizione, ma quei pochi lo avrebbero in
seguito ricordato, quando quel giorno e quegli eventi sarebbero sfociati nel
mito e così consegnati all’eternità. Ma era ancora presto, la storia ancora in
corso, e come una freccia scoccata dal cielo Hermes perforò la fitta coltre di
fumo e fiamme che usciva dalle finestre della camera di Semele, e vi s’infilò
dentro.
Subito
lo accolsero il calore e il fuoco; nastri roventi, rossi e gialli, gli sfarfallarono
addosso senza scalfirlo. L’aria era fosca e densa, il puzzo di bruciato
pungente.
D’istinto,
il Dio espanse la propria aura celeste; uno scatto di energia intensa, che come
un’enorme bolla d’aria fresca spinse il fumo fuori dalle finestre, dando un po’
di respiro all’ambiente. Con la coda dell’occhio percepì la devastazione che lo
circondava. Le fiamme si erano attaccate ovunque: tavoli, scranni, cassoni,
tende. Gli ampi tappeti che coprivano il pavimento ardevano come paglia; il
soffitto di pietra e legno, da cui piovevano cenere e scaglie di calce, aveva
già ceduto sul fondo e due possenti travi erano crollate davanti alla porta,
bloccandola con un muro di fuoco. Hermes sentiva le grida dall’altra parte
della barriera: qualcuno stava tentando di entrare, ma le travi erano troppo
pesanti.
Non
era un suo problema.
Il
suo unico problema era là, davanti a sé.
Si
passò una mano sulla bocca e si gettò verso il talamo al centro della stanza.
Il fuoco ne cingeva la struttura in bronzo, tentando d’intaccarla; il materasso
era in fiamme; polvere e scintille galleggiavano nell’aria torrida e
crepitante, conferendo a quello scenario di distruzione un’atmosfera
insolitamente bella. E su quel letto di fuoco, così simile alle pire funebri su
cui ardevano i corpi degli eroi, Semele giaceva nuda e immobile, irrorata della
luce dell’incendio.