mercoledì 29 novembre 2017

ORIONE - PARTE II








Malgrado avesse bevuto più vino di tutti, quella mattina Orione fu il primo ad aprire gli occhi. Fu la sete a svegliarlo: la sua gola era arida, le labbra secche e screpolate. Si alzò in piedi, barcollante, e una fitta di dolore gli stritolò la testa; un maledetto cordino invisibile stretto sulle sue tempie. Si massaggiò la fronte, indietreggiando di un passo, e per poco non calpestò il braccio di una delle ancelle. Allora si fermò e, col cervello improvvisamente attivo e il cuore che pulsava forte come l’emicrania, si guardò intorno. Cosce, piedi, pellicce, capelli biondi e bruni mescolati assieme… Le seguaci della Dea si erano addormentate tutte intorno al fuoco formando un caotico e sensuale groviglio di femmine; un’equilibrata mescolanza di tuniche bianche e rosea pelle da cui non spiccava neppure un seno nudo. Anche durante il sonno notturno, quelle vergini non dimenticavano mai di stare riposando accanto a un maschio, e da quando Orione faceva parte del loro gruppo si erano abituate a muoversi di conseguenza, stringendo al corpo la stoffa della veste in modo che nulla potesse scivolare fuori; e mai era capitato che, in sua presenza, qualcosa scivolasse fuori… neppure durante le battute di caccia, con i rami degli arbusti che spesso s’impigliavano alle loro belle tuniche, strappandone gli orli, e Orione ormai aveva concluso che sarebbe stato più probabile vedere il cielo e il mare scambiarsi di posto, piuttosto che riuscire a scorgere le nudità di quelle caste e bellissime ninfe.
Ma quella mattina, col cervello che gli premeva insistentemente contro il cranio, il gigante non si fece venire pensieri caldi. Ignorò quei corpi tutti uguali e con lo sguardo andò istintivamente da Artemide. Anche lei stava ancora dormendo, con la testa poggiata sulla coscia di una delle serve, e se non fosse stato per il suo bagliore divino e per la tunica verde che la faceva spiccare in mezzo alle altre, tutte bianche, si sarebbe mimetizzata in quel groviglio alla perfezione. Orione la osservò, aspettandosi di vederla aprire gli occhi da un momento all’altro, e quando capì che il suo sonno era ancora pesante raccolse arco e faretra, se li sistemò in spalla e oltrepassò i corpi delle fanciulle assopite, stando attento a non calpestarle. E, non appena ebbe abbandonato quel giaciglio improvvisato, si guardò di nuovo intorno, stavolta alla ricerca di Sirio, ma la spiaggia si presentò a lui piatta e silente: del cane e di tutti gli altri segugi non vi era alcuna traccia.
Orione si grattò la testa e, appena dopo qualche secondo, si ricordò ciò che già sapeva: la mattina presto i cani erano soliti gironzolare in branco nella foresta, per godersi un po’ di libertà prima che Artemide li richiamasse a sé dando il via alla caccia; un’abitudine che Sirio aveva subito fatto sua. Allora Orione si rasserenò e s’inoltrò nella boscaglia, mentre ritto sul suo carro dorato Apollo lo fissava in silenzio.

lunedì 27 novembre 2017

ORIONE - PARTE I (Artemide, Apollo, Orione)





Il segugio trotterellò fuori dalla selva, si fermò di fronte ai due cacciatori e, aperte le fauci, lasciò cadere ai loro piedi la preda recuperata: un piccolo volatile dal piumaggio bruno, col becco lungo e robusto, e la freccia fatale ancora conficcata nel petto. Infine, si fermò a fissarli entrambi, con la lingua che penzolava fuori dalla bocca come un lungo nastro di morbida carne.
«Ci avevo visto giusto! È una beccaccia. Ben fatto!» Artemide sorrise al compagno di caccia che con un solo, precisissimo colpo aveva appena abbattuto il volatile. «Non è facile riuscire a individuarle e colpirle, tanto meno a quest’ora del giorno.»
«Ti ringrazio, mia Dea.» Lui le sorrise di rimando col petto gonfio di autocompiacimento: ricevere elogi dalla Signora della caccia non era cosa in grado di lasciare indifferenti. «Permettimi, però, di rammentarti che io non sono un cacciatore come gli altri e che il mio desiderio di predazione è molto più acceso di quanto tu possa mai immaginare. Un desiderio che non può assolutamente essere saziato da questo misero pennuto che ora giace ai tuoi candidi piedi.»
«Ahhh… sei sempre il solito!» Artemide colpì scherzosamente il compagno alla spalla con la punta dell’arco: un gesto che lo invitava a dare un freno alla propria boria e a raccogliere il suo trofeo. «Su, datti una mossa, grande cacciatore!»
Lui rise e dondolò la testa. «Brutale come un uomo, ma bella come la più desiderabile delle vergini. Non è facile starti vicino né innamorarsi di te, o sterminatrice di cervi. Ma ti prego, non cambiare mai, perché sei incredibile così come sei.»
Artemide inclinò il capo, confusa da quelle parole di ambigua interpretazione, e quando il compagno s’inginocchiò e schiaffò nel sacco della selvaggina la piccola preda lo osservò per qualche istante, con la fronte aggrottata e gli occhi ridotti a due fessure, come se lo stesse incontrando per la prima volta.
Si chiamava Orione ed era un gigante. Figlio del Dio Poseidone e della principessa Euriale di Creta, sfoggiava per natura un corpo altissimo, tutto muscoli ed energia, in cui vibrava una forza d’animo straordinaria che gli aveva permesso di sopravvivere a un passato burrascoso; un passato dai ricordi ancora troppo vividi in cui Orione frugava raramente, tanto doloroso e inquietante era riportare alla memoria la notte in cui quell’infame d’un re gli aveva fatto strappare gli occhi dalle orbite, precipitandolo nell’oblio della cecità. E quanto aveva sofferto allora! Quanto a lungo aveva camminato a piedi scalzi, inciampando e inciampando ancora su quegli interminabili viali ciottolosi che per un cieco sono sempre troppo duri! Non si era mai rassegnato all’oscurità e quando la Dea Eos, intenerita e innamorata, gli aveva restituito la vista sfiorandogli le orbite vuote con la tenue luce rosa dell’aurora, Orione aveva pianto per ore e ore, commosso dalla bellezza dei colori e delle forme, fin quando la sete di vendetta non gli aveva fatto recuperare il controllo. Allora era partito, deciso ad ammazzare il re infame che lo aveva accecato, e portando con sé null’altro che arco, frecce e un lungo coltello affilato aveva attraversato villaggi, campi coltivati e foreste impervie, seguito a ruota dal suo inseparabile segugio col quale aveva dato la caccia a ogni genere di bestia, riscoprendo il proprio animo cacciatore e una convinzione personale troppo a lungo dimenticata: nessun animale nato sotto la volta celeste di Urano, neppure il più feroce e terrificante, poteva sperare di salvarsi da lui.
Era un predatore nato, un abile e freddo sterminatore di selvaggina, ed era così, nelle vesti di cacciatore perfetto e selvaggio, che Artemide lo aveva incrociato tra gli alti alberi, mentre accucciato nel verde folgorava con una delle sue frecce un ignaro capriolo. E, colpita dal suo innegabile talento, la Dea non ci aveva messo molto a convincerlo a lasciar perdere quei folli propositi di vendetta per godersi, invece, qualche battuta di caccia in sua compagnia.
«Non ti tratterrò a lungo. Desidero solo divertirmi un po’ con qualcuno che sia degno d’essere chiamato cacciatore. E tu mi sembri il tipo giusto.»
Poche parole e, prima di rendersene conto, Orione stava correndo tra le querce insieme alla pallida Dea, alla ricerca di lepri e cinghiali da abbattere: l’inizio di un’inaspettata amicizia che, appena ora, stava mettendo in risalto i caratteri dei due, permettendo loro di andare oltre la superficie e conoscersi meglio. E Artemide, che era molto più sveglia e sensibile del gigante, aveva già cominciato a intuire quali fossero i suoi difetti e quali i suoi pregi, anche se certi punti della sua personalità ancora le sfuggivano, come le sfuggiva il significato di quelle ambigue parole appena udite che un po’ le sapevano di offesa e un po’ di lusinga. Ma non le analizzò più di tanto. Due, forse tre secondi; il tempo di vedere Orione rialzarsi e caricarsi in spalla il sacco colmo di selvaggina, e di nuovo si sentì serena. Il gigante era un tipo semplice e schietto, si vedeva. Celare chissà quale verità dietro giri di parole non era proprio nel suo stile e la Dea apprezzava la sua compagnia anche per questo.
«Non stai dimenticando qualcosa?» gli domandò con aria di rimprovero, notando che era già pronto a riprendere la battuta di caccia.
Orione aggrottò entrambe le sopracciglia, senza capire, quindi Artemide sgranò gli occhi e gli indicò il segugio con un impercettibile cenno del capo, come se non volesse farsi notare dall’animale. Allora il gigante afferrò. «Bravo, Sirio. Bravo.» Strofinò un orecchio al cane, che per reazione scodinzolò facendo frusciare i ciuffi d’erba incolta. Poi ritirò la mano e lanciò ad Artemide un’occhiata paziente, quasi paterna; uno sguardo che sembrava sussurrare: l’ho fatto per te, ma in realtà credo sia un’inutile idiozia.
«Sirio è un bravo segugio» disse lei, sorridendo. «E, come me, ha fin troppa pazienza con te.»
Orione rise e scosse la testa, senza rispondere. Non voleva inciampare di nuovo in quella stupida conversazione. Ricordava troppo bene com’era finita l’ultima volta.
(Le lodi rafforzano il legame e stimolano il cane a migliorare)
(Il cane svolge solo il suo dovere e non deve ricevere smancerie di alcun genere. Un cacciatore lo sa bene… ma una cacciatrice forse no.)
Com’era stato imprudente e stupido quel giorno! Aveva capito di aver esagerato nello stesso momento in cui la sua bocca si era chiusa a formare l’ultima sillaba di quella frase arrogante, ma ormai era fatta. Il viso sorridente di Artemide si era oscurato; l’aria calda del pomeriggio si era improvvisamente gelata e lui aveva sentito la gola seccarsi. Poi, il suo cervello si era come paralizzato e un fiume di scuse maldestre e alquanto imbarazzate aveva cominciato a traboccargli dalla bocca, come mosso da vita propria. Non ricordava minimamente cosa aveva detto e non gli importava. In qualche modo era uscito indenne da quella disastrosa situazione e ora non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.
«Che ne dici di andarcene a sud?» domandò Artemide, indicando alle proprie spalle. «Poco prima della spiaggia c’è un boschetto dove dimorano numerose famiglie di cervi.»
Orione si voltò dalla parte opposta, dove la foresta si faceva più fitta. «Per i cervi c’è tempo. Ora voglio prendere qualcosa di grosso
«Un cinghiale?»
«No.» Il cacciatore rivolse alla Dea un sorriso audace. «Un orso.»
«Un orso?» Artemide ridacchiò. «Incrociarne uno a quest’ora del giorno è ancor più difficile che vedere e abbattere una beccaccia. Ti conviene aspettare il crepuscolo e nel frattempo lavorare sul tuo passo.»
«Il mio passo? Che intendi dire?» domandò Orione, ora serissimo.
«La tua mira è ottima, ma il tuo passo è un po’ troppo pesante. Dovresti imparare a muoverti con più morbidezza o l’orso fuggirà molto prima che le tue frecce riescano a scalfirlo.»
«Oh, mia Dea!» Orione scoppiò a ridere. «Questa è proprio buona!»
«Non fare lo sbruffone!» La cacciatrice sorrise e colpì di nuovo il compagno alla spalla con la punta dell’arco, stavolta più forte. «Ricorda che sono la Dea della caccia, io! Dovresti ascoltare i miei consigli invece di prenderli alla leggera!»
Orione s’inginocchiò, le mandò un bacio con la mano in segno di riverenza e si fermò qualche istante a guardarla negli occhi. Poi si rialzò e, con un tono che sapeva tanto di promessa, le disse: «Prima del calar del sole io prenderò un orso. Vedrai.»
«Vedremo» rispose Artemide, divertita, e scortati dal fido segugio i due s’incamminarono nel folto della foresta, mentre dal cielo azzurro una regale figura continuava a fissarli, senza perderli d’occhio un solo istante.

sabato 20 maggio 2017

PER MIA FIGLIA (Ares, Poseidone, Alcippe, Alirrozio)


Attenzione: il racconto contiene scene che potrebbero impressionare.







   Ad Alcippe restava poco: tre, forse quattro minuti di confortevole normalità fatta di passi, profumo di mare e caldi raggi di sole tra i capelli; un lasso di tempo che una fanciulla di sedici anni non avrebbe mai potuto apprezzare appieno perché scontato, ovvio, impossibile da valorizzare nella sua banalità. Ma se anche avesse saputo con quanta efferatezza il male l’avrebbe aggredita di lì a una manciata di istanti, Alcippe non si sarebbe fermata a ringraziare gli Dei per la quiete offertole quella giornata, per il buonumore, per le simpatiche nuvolette a batuffolo che galleggiavano qua e là come sbuffi di fumo bianco, nel cielo vasto e blu del primo pomeriggio. La porzione di esistenza tra la pace e l’inizio dell’orrore sarebbe stata svuotata di ogni significato, perché la giovane avrebbe pensato a una cosa sola: correre, correre e ancora correre, fino a porre tra sé e il mare una barriera insuperabile fatta di case, recinti, alberi e monti. Avrebbe corso fino a sentire il ventre piegarsi per i crampi, fino a percepire alle proprie spalle una smisurata e rassicurante distanza che le rendesse impossibile scorgere anche solo una goccia di quelle azzurrissime acque marine, e solo allora, scoprendosi al sicuro, avrebbe permesso al proprio fragile corpo di crollare a terra, e il sollievo dello svenimento sarebbe stato dolce e avvolgente, come un abbraccio a lungo desiderato.
   Ma niente di tutto ciò sarebbe mai accaduto e Alcippe, inconsapevole e spensierata, proseguì per la sua via.  

domenica 5 marzo 2017

NATO DUE VOLTE - PARTE II (Zeus, Hermes, Dioniso)

   Attenzione: il racconto contiene scene che potrebbero impressionare






 Un’atmosfera elettrica, satura di ansia e timore, avvolgeva Tebe dall’alto stritolandola nella sua invisibile morsa. Le case di pietra grezza erano vuote; le strade gremite di tebani terrorizzati che gridavano e piangevano con le mani tra i capelli. Tutti avevano sentito il terremoto; quel tremendo boato che aveva fatto vibrare ogni mattone e che in un attimo li aveva scaraventati fuori dalle loro piccole abitazioni e botteghe, a cercare l’esterno. Era stato terrificante, ma anche rapido e squilibrato, come se tutta la potenza della scossa si fosse concentrata in un unico punto della città: il palazzo reale di Cadmo. Perché malgrado la paura e la violenza del terremoto, nessuna casa di Tebe era crollata; nessun tebano era rimasto ferito. La sciagura si era abbattuta proprio sulla dimora del re ed era là, alle mura del palazzo, che ora convergevano gli sguardi lacrimosi dei cittadini, e tutti si chiedevano cose ne sarebbe stato della città se l’amato fondatore e la sua famiglia fossero rimasti vittime di quella disgrazia. Dopotutto, lo spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi non lasciava presagire nulla di buono: una parte del palazzo, quella più a est, dove si trovavano gli alloggi privati della principessa Semele, era irrecuperabilmente danneggiata e stava per collassare su se stessa; dalle finestre uscivano fumo nero e lingue di fuoco. Pochi minuti e di essa sarebbero rimaste solo macerie.
Giunto a Tebe, Hermes capì immediatamente dove doveva andare. Saettò sopra la folla e la frenesia di quella calca gli fu subito addosso: bambini urlanti, cani che abbaiavano, donne dal viso rosso e lucido che singhiozzavano e imploravano gli Dei. Il messaggero non li degnò di uno sguardo e si lanciò in direzione del palazzo; una scheggia dorata nel blu del pomeriggio. In pochi lo videro e lo riconobbero, tanto fugace fu la sua apparizione, ma quei pochi lo avrebbero in seguito ricordato, quando quel giorno e quegli eventi sarebbero sfociati nel mito e così consegnati all’eternità. Ma era ancora presto, la storia ancora in corso, e come una freccia scoccata dal cielo Hermes perforò la fitta coltre di fumo e fiamme che usciva dalle finestre della camera di Semele, e vi s’infilò dentro.
Subito lo accolsero il calore e il fuoco; nastri roventi, rossi e gialli, gli sfarfallarono addosso senza scalfirlo. L’aria era fosca e densa, il puzzo di bruciato pungente.
D’istinto, il Dio espanse la propria aura celeste; uno scatto di energia intensa, che come un’enorme bolla d’aria fresca spinse il fumo fuori dalle finestre, dando un po’ di respiro all’ambiente. Con la coda dell’occhio percepì la devastazione che lo circondava. Le fiamme si erano attaccate ovunque: tavoli, scranni, cassoni, tende. Gli ampi tappeti che coprivano il pavimento ardevano come paglia; il soffitto di pietra e legno, da cui piovevano cenere e scaglie di calce, aveva già ceduto sul fondo e due possenti travi erano crollate davanti alla porta, bloccandola con un muro di fuoco. Hermes sentiva le grida dall’altra parte della barriera: qualcuno stava tentando di entrare, ma le travi erano troppo pesanti.
Non era un suo problema.
Il suo unico problema era là, davanti a sé. 
Si passò una mano sulla bocca e si gettò verso il talamo al centro della stanza. Il fuoco ne cingeva la struttura in bronzo, tentando d’intaccarla; il materasso era in fiamme; polvere e scintille galleggiavano nell’aria torrida e crepitante, conferendo a quello scenario di distruzione un’atmosfera insolitamente bella. E su quel letto di fuoco, così simile alle pire funebri su cui ardevano i corpi degli eroi, Semele giaceva nuda e immobile, irrorata della luce dell’incendio. 

venerdì 3 marzo 2017

NATO DUE VOLTE - PARTE I (Zeus, Era, Hermes)



 


Seduto sul suo scintillante trono d’oro, Zeus, signore dell’Olimpo, ascoltava il proprio respiro nell’attesa che la calma e la lucidità tornassero a fargli visita. Un silenzio glaciale, quasi assordante, aleggiava nel grande tempio e la sua immota profondità aumentava a dismisura il peso del dramma che si era consumato di fronte agli occhi del Dio, appena pochi minuti prima.
Cosa ci faceva sulla Sacra Montagna? Perché era corso a cercare conforto nella quiete e nel vuoto, come se questi potessero aiutarlo a dimenticare ciò che aveva fatto? 
Quel tremendo silenzio, in cui ogni suo respiro cadeva pesante come un macigno, gli sembrava folle, insostenibile, e lo stava odiando sempre di più. Eppure, malgrado il cuore spaccato, il Dio non si muoveva. Il possente corpo era affondato sul trono, privo di forze; i gomiti poggiati sui lucidi braccioli; il volto nascosto dietro alla mano.
Basta…
Che avesse gli occhi aperti o le palpebre calate, Zeus continuava a rivedere quella scena, a riviverla, come se fosse ormai incisa sulla sommità della sua mente, al di sopra di qualsiasi altro pensiero e ricordo. La voce di Semele, la sua innamorata, che con femminile insistenza lo invitava a rivelarsi a lei in tutto il suo divino splendore; le morbide mani che gli accarezzavano le spalle; il profumo di fanciulla nuda e calda, pronta a concedersi a lui e a farlo impazzire… se solo lui avesse accolto la sua richiesta. E quella sensazione di ricatto, di ostacolo impossibile da oltrepassare, perché Semele era tanto bella quanto testarda e non avrebbe mai mollato la presa; e la rabbia, la voglia, l’impazienza… quella fiammata di passione violenta che dal petto era salita ad incendiargli la fronte e le guance…
E infine l’arrendevolezza. Il punto di non ritorno.
(d’accordo)
Il Dio prese a massaggiarsi la fronte corrugata.
(abbandonerò queste fattezze umane e ti mostrerò la mia luce, purché tu la smetta con queste sciocchezze e ti conceda ancora a me!)
Poche parole, pronunciate con evidente stizza, e il destino della fanciulla era stato segnato. Ma nell’udirle lei aveva sorriso d’entusiasmo e soddisfazione, come sorridono le donne quando riescono ad averla vinta, e senza attendere un istante di più lui si era tirato su col busto, aveva allargato le braccia e si era trasformato.
Basta… basta…
Con che indescrivibile velocità l’idillio amoroso era mutato in tragedia! Con che energia il potere ereditato da suo padre Crono gli era sfuggito di mano, non appena si era mostrato all’amata mortale senza trucchi né incantesimi! L’elettricità delle folgori era scoppiata nella stanza come un temporale; un boato terrificante aveva scosso le pareti del palazzo reale, le travi del soffitto, i pavimenti. Tutta Tebe aveva tremato e Semele, povera sventurata, era stata travolta in pieno da quell’ondata di luce e fulmini, divina essenza di Zeus, e il suo corpo nudo e bianco si era acceso come un tizzone.
Mai il Dio si sarebbe liberato di quelle immagini, di quei dettagli così dannatamente nitidi e mostruosi, o almeno così credeva, e mentre l’orrore gli scorreva davanti, le sue dita affondavano nelle palpebre chiuse, a strizzare gli occhi.
Innumerevoli erano state le morti a cui aveva assistito, prima ancora di prendere dominio dell’Olimpo, come innumerevoli erano stati i castighi e le sofferenze che aveva inflitto a tutti coloro che avevano osato alzare la testa e oltraggiarlo. Forte, severo e possente, non era tipo da lasciarsi impressionare facilmente dall’agonia, men che meno da quella umana. Eppure, quand’era innamorato, Zeus soffriva molto, e la morte accidentale di Semele, macabra come poche, persisteva nel tormentarlo come il peggiore degli incubi. La pelle candida che, cinta dalle folgori, si arrossava fino a ustionarsi; il corpo che si contorceva in preda alla sofferenza e allo sgomento; gli occhi fuori dalle orbite; la bocca spalancata, così spalancata che la mascella pareva quasi sul punto di dislocarsi; e le grida… quelle grida strazianti…
Zeus si stropicciò il volto con la mano e lo sentì più caldo che mai. Quanto tempo poteva essere passato da quando aveva lasciato Tebe? Cinque minuti? Dieci? Venti? Sentiva ancora l’odore di carne bruciata nelle narici; la ruvidezza di quella pelle fumante sotto le dita.
Dato un freno alla propria luce prorompente, mentre il fuoco scatenato dalle folgori andava divorandosi la stanza, con mano incerta aveva sfiorato il ventre di Semele, quasi non riuscisse a credere ai propri occhi e avesse bisogno di toccare la realtà per accettarla, e subito aveva sentito le labbra arricciarsi per il disgusto e il dolore. Ma, malgrado lo sconvolgimento, non aveva ritirato all’istante le dita e una vivace scintilla si era accesa nella sua testa; un barlume di consapevolezza, che ora contribuiva ad acuire il suo male.
Riprese a torturarsi la fronte, quando dei passi echeggiarono sul liscio pavimento in pietra del tempio.