domenica 25 settembre 2016

IL POMO DELLA DISCORDIA - PARTE I





Un tripudio di colori, profumi e canti animava i verdi boschi del Monte Pelio, in festa per l’unione più attesa e chiacchierata del secolo: il matrimonio tra la nereide Teti e il mortale Peleo, celebrato al cospetto di Zeus e di tutti gli Dei maggiori, discesi dall'Olimpo per presenziare al lieto evento e offrire agli sposi i propri doni e la propria benedizione.
Il simposio si svolse davanti alla grotta del centauro Chirone, nascosta nei meandri della montagna, e attorno alla più grande delle tavole imbandite per l’occasione, luccicante di piatti e coppe d’oro, gli Dei si godevano il banchetto, seduti su dodici troni tempestati di diamanti. Calici alla mano, sorseggiavano vino e nettare, mentre tutt’attorno regnava l’euforia. I centauri, compagni di Chirone, scalpitavano festosi e già un po’ ebbri; le Muse, riunite a cerchio, intonavano canti melodici accompagnate dalla lira del talentuoso Orfeo, conquistandosi occhiate di ammirazione da parte di Apollo, seduto al tavolo degli Olimpi accanto alla sorella Artemide; Ebe la Coppiera girava senza sosta tra gli invitati, riempiendo loro le coppe e sorridendo con cortesia, mentre Pan soffiava energicamente nella zampogna, inquinando con le sue note stonate la perfezione della lira di Orfeo e infiammando di divertimento gli animi delle Menadi, seguaci di Dioniso, che ubriache giacevano sul prato a ridere l’una dell’altra con le tuniche macchiate di vino.
L’allegria era alle stelle, gli animi deliziati dal calore dei festeggiamenti.
E tra una coppa di nettare e l’altra, quando l’attenzione di tutti pareva spostarsi altrove, tra gli Dei volavano sguardi eloquenti, che nella loro immediatezza rivelavano conflitti irrisolti, sentimenti di stima mai confidata e amori segreti.
Un osservatore attento li avrebbe colti tutti, a cominciare dalle occhiate perentorie che l’elegante Era, Signora degli Dei, lanciava al marito ogni qualvolta i suoi occhi si soffermavano con troppa insistenza su una delle donne con cui in passato aveva condiviso il letto.
Per la Dea non era affatto facile godere appieno di quei rari momenti di unione familiare, perché tante, troppe, erano le ex amanti di Zeus che vi prendevano parte e che puntualmente si presentavano a testa alta accompagnate dai figli avuti insieme a lui: la bella Maia, che per figlio vantava Hermes, il Messaggero; la sorella Demetra, che gli aveva dato Persefone; la titanide Mnemosine, con cui aveva generato le Muse; la pleiade Elettra, dal cui ventre era nato Dardano, progenitore di Troia...
Ormai non vi era più alcuna traccia di passione a unire Zeus e quelle donne, ma Era, visceralmente corrosa dalla gelosia e dal sospetto, naturali conseguenze di millenni di infedeltà e menzogne, non poteva fare a meno di folgorarlo con lo sguardo non appena lo scopriva a sorridere loro, sebbene quelli del consorte fossero sorrisi rilassati, del tutto privi di malizia.
Era più forte di lei, un bruciore che non poteva contenere in alcun modo, neppure sforzandosi.
E quando Zeus incrociava il suo sguardo duro e notava quella particolare smorfia di indignazione che le increspava le labbra, un moto di nervosismo gli faceva puntualmente mutare espressione, spingendolo a provare fastidio e compassione al tempo stesso nei confronti di quella moglie tanto fedele quanto oppressiva. Ma pur di non infilarsi in situazioni sgradevoli, il Dio la accontentava, perdendosi in futili chiacchiere ora con suo fratello Poseidone, ora con Dioniso, ora con lei, e seppur per qualche minuto tutto pareva acquietarsi, fino al momento in cui una delle donne incriminate non si intrometteva nel discorso, riconquistando la sua attenzione e, insieme ad essa, anche l'astio di Era.
Ma nessuno dei presenti a quel simposio era tanto abile a comunicare con lo sguardo quanto Ares, Signore della Guerra e del Sangue.
Il Dio sedeva a fianco della madre Era, vicino alla coppia di sposi. Fiero sul suo trono indossava un'armatura di bronzo lucido dalle cui spalle pendeva un mantello rosso, che gli conferiva un aspetto autorevole e, per certi versi, minaccioso. Un elmo bronzeo, dalla superficie intarsiata e dal lungo pennacchio nero in crine di cavallo, gli scintillava sulla fronte, calando un velo d'ombra sui suoi occhi ambrati, che ciononostante continuavano a brillare, accesi di desiderio.
Si portò la coppa alle labbra e prese un sorso di vino, senza mai staccare lo sguardo dall'oggetto del suo amore.
Lei.
Afrodite.
Signora della Bellezza e dell'Amore.
Sedeva al suo stesso tavolo, pochi posti più indietro. Avvolta in una tunica bianca e leggera come la spuma del mare, che le lasciava scoperta una spalla e parte della schiena, sorseggiava nettare accanto a suo marito Efesto, il fabbro degli Dei.
Erano un'accoppiata bizzarra, una di quelle che saltano subito all'occhio. Efesto, brutto e zoppo, che persino dal modo in cui teneva il capo chino lasciava trapelare la sua condizione di divinità derisa ed emarginata dagli altri Olimpi, a dispetto dell'elegante chitone che quel giorno gli copriva il corpo pareva quasi un poveraccio qualsiasi, che per pura fortuna si fosse trovato a sedere di fianco ad Afrodite, creatura dall'avvenenza leggendaria e dalla sensualità prorompente.
I due non si guardavano né si parlavano, come se non si conoscessero affatto, benché la loro condizione di sposi legittimi fosse cosa ben nota in tutta l'Ellade, dalle terre di Tessaglia agli assolati lidi di Creta.
Ma il loro atteggiamento distaccato non era una novità.
La bella Dea aveva occhi solo per Ares e ciò aveva smesso da tempo di essere un pettegolezzo succoso in grado di agitare gli animi degli Dei. E obbligata per convenzione sociale e rispetto nei confronti degli Olimpi a sedere accanto al suo sposo, Afrodite comunicava col suo storico amante attraverso lo sguardo, lanciandogli occhiate oblique e sorrisetti seducenti.
Mi manchi, mio amore… Bramo il momento in cui poserai le tue calde mani su di me, stringendomi forte e baciandomi, baciandomi, baciandomi... Oh, sapessi quanto lo bramo!
Assorbito dai grandi occhi azzurri di Afrodite, Ares si inumidì le labbra con la punta della lingua, poi sorrise, malizioso, mentre i suoi pensieri correvano a intrecciarsi a quelli della Dea.
Alzati, mia Dea. Il mio cuore non può più attendere.
No, Ares! No! È ancora presto...
Va' dalle tue ancelle e mescolati a loro. Io ti seguirò. Non se ne accorgerà nessuno, la festa è al suo culmine.
Ti prego, non guardarmi così. Il tuo sguardo mi infiamma, i tuoi occhi mi spogliano...
Quanto sei bella...
Placa il tuo cuore, Ares, e attendi. A breve saranno tutti ubriachi. E allora, solo allora, sarà il nostro momento...
Afrodite inclinò la testa da un lato e la folta chioma di capelli color miele, impreziosita per l'occasione da minuscole conchiglie bianche, le dondolò sulla spalla scoperta. Si portò il calice alla bocca e prese un altro sorso di nettare, infine si passò la punta dell'indice sulle labbra lucide, fingendo di asciugarle; un gesto che infiammò Ares di desiderio, rendendolo più impaziente che mai.
Ma quel gioco piaceva a entrambi e nessuno dei due lo stava vivendo con nervosismo. Sapevano che era questione di poco prima che gli invitati, conquistati dal vino, si distraessero completamente, abbandonando i loro posti per mescolarsi alle Menadi, ai satiri e alle Muse, e che in quella mischia loro due avrebbero potuto appartarsi nei boschi senza alcuna difficoltà e dar sfogo alla propria passione.
Solamente la vergine Atena, Signora della Guerra Nobile e della Saggezza, seduta poco distante, esprimeva palese irritazione per quegli sguardi lascivi, e indignata scuoteva la testa, sperando che i due la notassero e la smettessero una volta per tutte di copulare a distanza.
Per quanto potesse apparire severa nei modi, la Dea non nutriva odio né per Afrodite né per Ares, nonostante quest'ultimo la facesse spesso innervosire sul campo di battaglia a causa della sua impulsività e delle sue inesistenti capacità in ambito strategico, che per lei erano una mancanza imperdonabile da parte di un Dio del suo calibro. Eppure in quell'occasione si trovò a sperare che qualcuno li allontanasse dal banchetto, tanto le loro occhiate lussuriose la mettevano a disagio; soprattutto quelle da parte di Ares.
Avendo fatto della verginità una scelta di vita, la Dea faticava a comprendere come si potesse abbandonare la grazia dell'intelletto per trasformarsi in bestie libidinose, prive di ogni dignità, e l'erotismo che Ares e Afrodite emanavano coi loro corpi le premeva addosso come un'energia malsana, insopportabile, che la metteva in profondo imbarazzo. Sarebbe stato lo stesso anche se fossero stati sposati: era la tensione sessuale a farla arrossire.
Ciononostante lasciò correre e, a parte scuotere la testa di tanto in tanto, la Dea si sforzò di ignorarli: non desiderava il loro male ed era consapevole che in passato i due avevano già patito a sufficienza a causa del proprio amore proibito, e questo era per lei un valido motivo per lasciarli in pace, liberi di inguaiarsi da soli senza il suo intervento diretto. Perciò, seduta a schiena dritta sul suo trono, con l'elmo d'oro che le brillava sul capo, tornò a conversare pacatamente con Artemide, accomodata di fronte a sé, e a poco a poco riuscì a distrarsi.
Scandito da un ritmo musicale sempre più incalzante, il simposio scorreva alla perfezione, riempiendo i cuori degli sposi di gioia e orgoglio.
La giovane Teti, che splendida nel suo abito nuziale sedeva accanto a Peleo, non aveva mai smesso di sorridere e la sua felicità era così intensa da illuminarle il viso, e non di rado Zeus e Poseidone si perdevano a contemplarla con occhi ammirati, come se la nereide celasse in sé un misterioso potere.
In passato entrambi si erano innamorati di lei, la più bella tra tutte le cinquanta figlie di Nereo, e quasi avevano litigato per decidere chi, tra loro, dovesse essere il primo a goderne i favori. Ma prima di commettere il più grave errore delle loro vite, i due avevano scoperto l'inquietante profezia che pesava sull'affascinante nereide: una profezia delle Moire, le Oscure Filatrici del Fato, le quali avevano predetto che chiunque si fosse unito a Teti avrebbe generato un figlio capace di superarlo in grandezza ed epicità; un figlio il cui nome avrebbe echeggiato nell'eternità per secoli a venire, ispirando guerrieri e poeti, al punto da oscurare quello del padre. E i due Olimpi, terrorizzati all'idea di perdere i propri regni e di vedersi scavalcare in potenza dal sangue del proprio sangue, avevano immediatamente rinunciato a Teti, e per evitare che qualche altro Dio corresse, a sua insaputa, il rischio di trovarsi detronizzato, Zeus aveva dato in sposa la nereide a un innocuo mortale: Peleo, figlio di Re Eaco.
E proprio da quel novello sposo, che ora si gongolava tronfio sul suo trono accanto a Teti ignorando la profezia delle Moire che tanto aveva spaventato Zeus e Poseidone, sarebbe nato uno degli eroi più possenti e valorosi di tutti i tempi: Achille, il semidio guerriero che fuori dalle mura di Troia avrebbe fatto di se stesso leggenda.
Ma era ancora presto.
I due sposi, gli Dei dell'Olimpo, i centauri del Monte Pelio e i mortali che grazie ai loro meriti e virtù si erano conquistati il diritto di partecipare a quell'eccezionale celebrazione, stavano ancora godendo dei festeggiamenti, e i bagordi sarebbero andati avanti fino a dopo il tramonto, come di consueto. E chiunque, persino Era dal duro sguardo, percepiva l'umore farsi via via più allegro, influenzato dal vino e dall'euforia dionisiaca, che come un'energia indomabile stava avendo la meglio sui soavi canti delle Muse.
Migliaia di colombe bianche svolazzavano sul capo degli invitati; Menadi e Nereidi danzavano insieme, lanciando in aria rose e fiordalisi, mentre le caste seguaci di Artemide, sedute sull'erba, intrecciavano corone di fiori da donare agli sposi. E la musica, le risate, lo scalpitio degli zoccoli di satiri e centauri, il tintinnare delle coppe colme di vino...
Tutto era meraviglioso.
Perfetto.
Sublime.
Ma, ad un certo punto, qualcosa cambiò.
La musica si interruppe di colpo. Le colombe dal candido piumaggio fuggirono via, scomparendo tra le fronde degli alberi in un frullare d'ali terrorizzato.
Stupiti, gli Dei si voltarono in direzione del fondo della radura, giusto in tempo per vedere la folla di centauri e fanciulle danzanti aprirsi in due, come tagliata a metà.
E in mezzo videro lei.
Eris.
La Dea della Discordia.
Scura in volto avanzava lenta tra gli invitati, in un frusciare di vesti nere come l’oblio. Le ali spalancate; il portamento sicuro, di chi sa di non poter essere fermato in alcun modo. E colpiti da quell'inaspettata presenza, i partecipanti alle nozze, che fino a poco prima stavano ballando spensierati, si appiattirono l'uno sull'altro, gelati al pensiero di sfiorare il corpo della Dea anche solo per errore.
Era una visione terrorizzante, di quelle che annodano le budella: i suoi occhi ambrati erano fissi sul tavolo degli Olimpi, e bruciavano, rivelando tutta la collera che le ardeva dentro.
Zeus la guardò in viso e prima ancora di mettere ordine nei suoi pensieri deglutì a vuoto.
Sapeva che Eris non era stata invitata a quel matrimonio. Tutti lo sapevano. Ne era stata estromessa proprio da lui, per evitare che col suo malsano talento rovinasse la festa spargendo malelingue e seminando invidia tra gli invitati; perché nessuno, in cielo, terra, mare, e persino nell'Oltretomba, era abile a diffondere astio e rancore nei cuori di Dei e mortali quanto l'oscura Signora della Discordia, e ciò faceva di lei un'invitata di cui qualsiasi coppia di sposi avrebbe volentieri fatto a meno.
Il Dio lanciò una rapida occhiata alla moglie, inquieta quanto lui, e sudando nel vedere sua figlia venirgli incontro con gli occhi di fuoco, si schiarì la gola, preparandosi ad affrontarla.
Ma tu guarda che bella festa, pensò Eris, mentre con la coda dell'occhio percepiva la presenza dei musici, delle Menadi e dei satiri, e il buon profumo di nettare, ambrosia e selvaggina le scivolava sotto le narici. Non vi siete fatti mancare nulla, o Dei infami che ve la godete alle mie spalle! Non un accenno di rimorso, non una smorfia di pentimento! Come avete osato pensare che avrei tollerato l'onta dell'esclusione? Vi siete fatti beffe della Dea sbagliata, o sciocchi, e ora la pagherete!
Quando ormai mancavano pochi passi al tavolo degli Olimpi, l'espressione di Eris mutò e un sorriso perverso le tese le labbra, incattivendole il volto; un sorriso velato di crudeltà, che gelò nel profondo gli invitati tutti, ad eccezione di Ares.
Da sempre sensibile al fascino oscuro della sorella, nel vederla sorridere in quel modo il Dio avvertì il cuore balzargli nel petto e il suo pulsare farsi via via più forte, più accelerato. La stava ammirando dal momento in cui si era palesata precipitando il banchetto nel silenzio, ma solo ora che era vicina, tremendamente vicina, si sentì stendere dalla sua bellezza; quella bellezza nera, diabolica, di donna che trae nutrimento e forza dal sadismo e dalla sofferenza altrui. E pur sapendo che fosse sul punto di commettere qualcosa di malvagio, se non addirittura aggressivo, Ares riuscì solamente a percepire un vago senso di timore, tanto era rapito dalla sua particolare avvenenza.
Ma Eris non lo guardò neppure per un istante: era fissa sul suo obiettivo, sulla sua vendetta, e nella sua mente non vi era posto per null'altro.
Infine, giunse al tavolo.
Zeus, prima ancora che la figlia aprisse bocca, fece per parlare, deciso a placare la sua ira sul nascere ed evitare a tutti i presenti una situazione alquanto sgradevole.
Ma lei lo anticipò e con fare sicuro gettò sul tavolo un oggetto; qualcosa di sferico e brillante, che aveva sempre stretto nella mano destra ma che nessuno dei presenti aveva notato fino a quel momento.
Una mela d'oro.
Rotolò tra le vivande e dopo aver rovesciato alcune coppe di vino e calici di nettare, giunse di fronte a Peleo che la afferrò, scrutandola per primo.
Tutti gli Dei e gli invitati si voltarono a guardarlo e lui, con la fronte corrucciata, lesse ad alta voce le parole incise sulla superficie del pomo.
«Alla più bella.»
Disorientati, gli Dei si scambiarono occhiate stupite, senza dire nulla, e Peleo, resosi improvvisamente conto di avere tra le mani un oggetto scottante, che avrebbe potuto metterlo in seria difficoltà, passò il pomo a Zeus.
«Buon proseguimento!» esclamò Eris con un largo sorriso, poi spiccò il volo abbandonando il banchetto prima che chiunque potesse dirle alcunché.
Ma non se ne andò davvero. Non appena si librò sopra le fronde degli alberi, lassù dove lo sguardo degli altri non avrebbe potuto raggiungerla, la Dea ridiscese, stando attenta a non far rumore, e si accucciò sulla cima di un'alta quercia da cui si riusciva a vedere la radura su cui si stava svolgendo il simposio.
Non si sarebbe persa quello spettacolo per nulla al mondo, e affamata di conflitti rimase là, a godersi di nascosto la scena come un avvoltoio pronto a cibarsi della carne altrui.
«Alla più bella» ripeté Zeus lisciando coi pollici la dura superficie del pomo, mentre la consapevolezza di essersi infilato in una brutta situazione si faceva largo nella sua mente, com'era successo a Peleo appena poco prima. Gli sarebbe piaciuto prendere tempo, riflettere con la giusta calma, ma sapeva di non poterselo permettere: doveva decidere, e in fondo chi meglio di lui, grande estimatore di donne, sarebbe stato capace di scegliere la vincitrice con saggezza?
Non era un compito che sentiva di poter delegare.
Allora staccò gli occhi dal pomo e si affrettò a contemplare con attenzione le Dee sedute al tavolo.
Erano tutte bellissime, agghindate e profumate dalla testa ai piedi per l'occasione, ma quando il suo sguardo si posò su Afrodite ogni dubbio svanì dal suo cuore, offrendogli una squisita sensazione di leggerezza.
Era lei la più bella. Non c'era alcun dubbio.
Ma non appena il Dio sollevò il braccio, lasciando intendere che avrebbe consegnato l'ambito premio alla Signora di Cipro, Era emise un sospiro rabbioso; un sibilo sinistro, quasi impercettibile, che però Zeus udì immediatamente su di sé, come un presagio di morte.
Pallido in volto, si girò verso di lei. La mela sospesa a mezz'aria; gli occhi tondi e impauriti, come quelli di un bambino. Lo sguardo adirato della Dea lo trapassava da parte a parte, più aguzzo di qualsiasi pugnale, e il messaggio che lasciava trasparire era chiaro, inconfondibile.
Non lo fare.
Non ti azzardare.
Intimorito, Zeus calò la mano, rimanendo immobile per qualche secondo. E mentre pensava a come uscire indenne da quel pasticcio, con gran stupore si accorse che Atena, seduta poco distante, aveva teso il braccio verso di lui, mostrando anche lei interesse per quel gioiello.
«Padre mio, non commettere gesti avventati» disse la Dea con voce calma, sorridendo al genitore con la sicurezza di chi sa di essere nelle sue grazie e che, forte di quella posizione, è in grado di manipolarlo per trarne immediati vantaggi. «Sai bene che la bellezza è eleganza, perciò chi più di me, Dea della Sobrietà e del Buonsenso, merita il bel pomo d'oro che reggi in mano?»
Zeus, che da sempre teneva in grande considerazione Atena e che tendeva a reputare giusto e indiscutibile tutto ciò che usciva dalla sua bocca, si lasciò convincere immediatamente dalle sue parole e di nuovo fece per sollevare la mano che reggeva la mela, quando un'esclamazione di sdegno lo paralizzò, spingendolo a desistere.
Era Afrodite.
«Ma dico, ti rendi conto di cosa vai farneticando?» gridò la bella Cipride, rivolgendosi alla Dea della Saggezza. Stava sorridendo, ma in realtà era innervosita nel vedere che qualcun'altra osasse ambire a quel pomo, che a suo dire le spettava di diritto. «Tu, la più bella tra le belle? Con quel corpo asciutto da atleta e quei seni che a malapena si intravedono sotto la tunica? Neppure un satiro al culmine dell'ebbrezza potrebbe mai provare interesse per te, o saggia Atena dalla boria infinita!»
«Povera, Afrodite...» replicò l'altra, con un'aspra smorfia. «Quando capirai che la bellezza non ha nulla a che vedere con la mera formosità, e che l'eleganza, quella sì, è ciò che contraddistingue una donna desiderabile, capace di far cadere chiunque ai propri piedi con un solo sguardo? Sei così ingenua. Così arrogante.»
«Ti stai rendendo ridicola! Sai bene che quel pomo spetta a me!»
«È destinato “alla più bella”, non “alla più volgare”.»
«Non ti permettere!»
«Tu non ti permettere di disquisire a proposito di fascino! Coi tuoi modi da meretrice, sempre pronta a strusciarti mezza nuda sui maschi, che mai potrai capirne di finezza e grazia?»
Gli occhi celesti di Afrodite si infiammarono e tutti pensarono che fosse sul punto di abbandonare il trono e lanciarsi addosso ad Atena. Ma la bella Dea, che per natura rifuggiva da ogni forma di violenza fisica, si limitò a guardare male la rivale, nel tentativo di spingerla a ritirarsi.
«Sciocca e presuntuosa! Quel pomo non finirà mai tra le mani di una rozza vergine! Mettitelo bene in testa!»
Nell'udire quelle parole, Artemide, seduta poco distante, aggrottò la fronte, indispettita. Non era interessata a prendere parte alla disputa, né provava interesse nei confronti di quella mela d'oro per cui le due Dee si stavano scontrando: a differenza di Afrodite, vanitosa fino alla punta dei capelli, e di Atena, piena di sé da voler essere la migliore in qualsiasi ambito, compresi quelli che non le competevano, la Dea della Caccia e della Luna aveva capito il gioco di Eris e se ne stava tenendo saggiamente alla larga. Ma quando Afrodite fece della verginità una discriminante per escludere Atena dalla gara, lei, che come la Dea della Saggezza non aveva mai giaciuto con un uomo, non poté fare a meno di intromettersi nel discorso.
«Sbagli, Afrodite. Una vergine può essere bella, fascinosa e incantevole, forse anche più di una seduttrice di uomini» disse con voce ferma.
Irritata da quell'intromissione, la Signora di Cipro la guardò, scuotendo la testa. «Che sciocchezza hai appena detto, Artemide! Bellezza, grazia e seduzione sono legate a doppio filo, e una vergine che rifugge gli uomini sarà sempre inferiore a un'amante che li accoglie a braccia aperte!»
Dura e fredda, Era si rivolse ad Afrodite, decisa a rimetterla al suo posto una volta per tutte. «Tu, che gli uomini li accogli a cosce aperte, come ti permetti di fare la lezione alle altre su cosa sia o meno l'eleganza? Quel pomo non ti spetta.»
«E a chi spetterebbe? A te, forse, Era?» domandò la Cipride con tono ironico, lasciandosi sfuggire un risolino. «Se lo pensi, temo tu sia ancor più ridicola di Atena.»
«L'unica che si sta mettendo in imbarazzo a questo tavolo sei tu, o Dea superba...» replicò Atena, piccata.
E mentre le Dee litigavano tra loro, dalla cima della sua quercia Eris tratteneva a stento le risate, estasiata da quello spettacolo.
Quanto siete prevedibili! Così vanesie e stupide! Avanti, fatemi divertire ancora! Mostratemi fino a che punto può spingersi la vostra spocchia!
«Guardati, Atena! Hai i bicipiti più grossi di Dioniso!» esclamò Afrodite, scatenando le risa del Dio del Vino, divertito da quel commento e dal modo in cui le Dee stavano bisticciando. «Come puoi pensare di meritare il titolo di più bella tra le belle? Sei forse impazzita?»
«Ti comporti come una fanciulla isterica.»
«O Dee, siete entrambe troppo immature per comprendere il significato dell'autentica bellezza» aggiunse Era, che pur essendosi tuffata nel discorso continuava a lanciare occhiate minacciose a Zeus, come se temesse che da un momento all'altro, approfittando di quella confusione, il marito offrisse il prezioso pomo a qualcun'altra. «Nessuna di voi due è degna di quel trofeo.»
Ad un certo punto, Hermes, che a differenza di Dioniso non era ebbro a sufficienza per trovare spassoso quel battibecco tra femmine, si rivolse a gran voce a Zeus. «Allora, Padre? Chi è secondo te la più bella tra tutte?»
Zeus, con la mela d'oro ancora tra le mani, fece per aprire bocca, poi la richiuse. Non sapeva cosa dire, né come uscire da quella situazione.
Allora Efesto, vedendolo in difficoltà, prese una brocca di vino dal tavolo e stretto alla sua stampella si alzò in piedi, per raggiungerlo. In pochi si accorsero di lui: le Dee stavano continuando a insultarsi e gli invitati seduti agli altri tavoli erano impegnati a discutere tra loro di bellezza.
«Quel pomo d'oro spetta ad Afrodite!» diceva qualcuno. «È senza dubbio lei la più bella di tutte!»
«È bella, è vero. Ma una donna per essere interessante agli occhi di un uomo deve possedere anche altre virtù» rispondeva qualcun altro. «Per me la più bella è Era! La sua fedeltà è leggendaria, la sua carnagione lattea e seducente, il suo portamento nobile, da vera signora... Cosa potrebbe desiderare di più uno sposo?»
«Io invece preferisco Atena! È meno formosa di Afrodite ed Era, questo è sicuro, ma il suo viso è estremamente ammaliante. E poi è la più intelligente e colta tra le Dee dell'Olimpo, e questa non è cosa da poco!»
«Ma la mela è destinata “alla più bella”! Non “alla più fedele” o “alla più intelligente”! Bisogna attenersi a ciò che è inciso sul pomo!»
In quel chiacchiericcio crescente, Efesto finse di versare del vino a Zeus e con discrezione si chinò sul suo orecchio. «Ascoltami, o Sommo. Consegna la mela ad Afrodite e poni fine a questa inutile contesa. È lei la più bella, la più desiderabile, e non lo dico solo perché è mia moglie, sia chiaro, ma perché la sua avvenenza è sotto gli occhi di tutti, e sarebbe una follia non consegnarle quel pomo.»
«Lo so, me ne rendo conto!» sibilò Zeus a denti stretti, cercando di non farsi sentire da nessuno, a esclusione del fabbro. «Ma se do la mela ad Afrodite poi chi la sente mia moglie? Non me lo perdonerebbe MAI! Ne ha fatta una questione di orgoglio personale e tu non immagini quanto possa essere tremenda quando ci si mette!»
Efesto accennò un malinconico sorriso. «Lo so bene, invece. È mia madre. La conosco...»
«Mi sta guardando persino ora! Vuole questa maledetta mela, i suoi occhi sembrano quasi strapparmela dalla mano!»
«Non è facile...»
Ares, che sedeva più lontano rispetto a suo padre Zeus, notò che Efesto si era alzato e che si stava consultando privatamente con lui, ma non se ne curò più di tanto e tornò a seguire gli scontri tra le Dee, così come si segue un incontro di pugilato.
Era inquieto; sospeso in uno strano stato mentale, tra il rammarico e la fascinazione.
Non gli piaceva come sua madre offendeva Afrodite, né come la bella Dea rispondeva a tono, tentando di ferirla a sua volta. Entrambe facevano parte dei suoi affetti più intimi e mai avrebbe pensato che un pomo d'oro potesse far impazzire in quel modo delle Dee maggiori, che già possedevano gioielli e ninnoli preziosi d'ogni genere e che vantavano tutte un ego spropositato, tanto elevata era la considerazione che avevano di se stesse.
Eppure ciò era accaduto e Ares era certo che Eris si stesse godendo la scena, nascosta da qualche parte.
Gettò un'occhiata intorno, tra gli invitati, poi scrutò le fronde degli alberi.
Dove sei?
La conosceva meglio di chiunque altro, persino più dei loro stessi genitori, perciò sapeva che non se n'era davvero andata dal Monte Pelio: diffondere la discordia senza trarre piacere da essa sarebbe stato inconcepibile per lei.
Ma non la vide.
La Dea aveva celato bene la sua figura tra il fogliame e Ares non si dannò a cercarla, tornando a concentrare la propria attenzione sui conflitti che animavano il tavolo degli sposi.
«Orsù, Padre!» esclamò Apollo, infastidito da quella confusione e, soprattutto, dal fatto di essere stato estromesso da quella che, a conti fatti, era una vera e propria gara di bellezza, sfortunatamente destinata alle sole Dee. «A chi spetta il pomo? Devi decidere!»
«Dai retta a me» sussurrò Efesto a Zeus. «Se non puoi dare il pomo ad Afrodite, tiratene fuori e lascia che sia un mortale a farsi carico di questo fardello, e a pagarne le conseguenze.»
Il Signore delle Folgori abbracciò immediatamente la soluzione proposta dal fabbro e lo guardò negli occhi, annuendo. «Hai ragione. È la cosa migliore da fare.»
«Lo è senz'altro» rispose Efesto, felice di essere stato utile in qualche modo.
Poi, col pomo d'oro ancora in mano, Zeus si alzò in piedi, si schiarì la gola e si rivolse alle Dee presenti al simposio.
«O splendide Dee dell'Olimpo, voi per me siete tutte bellissime, lucenti e aggraziate, e se solo potessi offrirei a ognuna di voi, non una, ma migliaia di mele d'oro! E credetemi, le mie non sono semplici lusinghe di circostanza, bensì parole sincere, che vengono dal profondo del cuore. Noto però che tra di voi, tre Dee in particolare vantano un'avvenenza fuori dal comune: Era, Atena e Afrodite. Ma, come ben sapete, io sono sposo della prima e padre della seconda, perciò come potrei mai scegliere con la dovuta imparzialità? Non mi sarebbe possibile. Per questa ragione ho deciso di nominare un giudice esterno. Qualcuno che vanti una mente libera da condizionamenti e che sia capace di offrire questo pomo alla vincitrice con saggezza e obiettività. Un mortale.»
Il brusio nella radura si fece più intenso. Le tre Dee si guardarono l'un l'altra, contrariate da quella dichiarazione che rimandava a chissà quando il momento in cui la mela sarebbe finalmente finita tra le mani di una di loro.
Oh, Padre! Non ci posso credere! pensò tra sé e sé Eris scuotendo la testa con un diabolico sorriso sul volto. Era divertita da quegli inaspettati sviluppi, che col coinvolgimento dei mortali avrebbero reso la cosa ancor più interessante. Quanta vigliaccheria! Che mollezza di spirito!
«Ma Padre!» esclamò Apollo, colpito come tutti da quella decisione. «Credi davvero che sia giusto che un mortale si immischi nelle faccende degli Dei?»
«Come potrà reggere sulle proprie spalle una tale responsabilità?» domandò Artemide.
«Ripensaci, Padre mio» aggiunse a sua volta Ares. «Un mortale qualunque non potrà mai dimostrarsi affidabile.»
«Tacete e ascoltate ciò che ho da dirvi, o figli malfidati!» gridò Zeus, rosso in volto. Non sopportava essere contraddetto in alcun modo, men che meno dai suoi stessi figli. «Il mortale da me scelto è degno di fiducia e rispetto. Il suo nome è Paride, figlio legittimo di Re Priamo ed Ecuba. Vive sul Monte Ida, dove pascola le pecore dall'alba al tramonto, e ancora non sa di avere nelle vene sangue regale. Ma lui e solamente lui deciderà chi tra Era, Atena e Afrodite sia la più bella.»
Un pastore di pecore giudice di un concorso di bellezza tra Dee!
Sul punto di scoppiare a ridere a crepapelle, Eris si schiaffò entrambe le mani sulla bocca.
«Non avresti potuto scegliere un giudice migliore, Padre» disse Ares, che già aveva avuto modo, in passato, di mettere alla prova l'integrità morale del pastore. «A dispetto della sua giovane età, Paride è maturo e obiettivo. Tutti gli Dei ricorderanno la lealtà che dimostrò nell'offrire a me la corona della vittoria, il giorno che sconfissi il suo toro prediletto nella lotta.»
«È vero» confermò Apollo, che come gli altri Olimpi aveva assistito dalla vetta della Sacra Montagna allo scontro tra Ares, tramutato in toro per l'occasione, e il campione di Paride. «Ti premiò senza alcun indugio, dimostrando grande onestà.»
«Tutti noi apprezzammo la sua rettitudine» gli fece eco la sorella Artemide.
«Sono d'accordo con voi. Paride sarà un ottimo giudice» disse Afrodite, annuendo con un placido sorriso. Sapere che l'arbitro della gara sarebbe stato un pastore, abituato ai mediocri visi delle contadine, le faceva già sentire la liscezza del pomo d'oro in mano.
E anche Era e Atena annuirono, seppur con meno entusiasmo: avrebbero preferito che la faccenda si risolvesse subito, senza troppe complicazioni, ma non potevano contrastare in alcun modo il volere del Signore dell'Olimpo.
«Allora è deciso» continuò Zeus, con voce più calma, poi posò lo sguardo su Hermes. «Domani, figlio mio, condurrai le Dee sul Monte Ida, da Paride, e ti assicurerai che il giovane adempia al compito che gli è stato affidato.»
«Sarà un piacere, Padre» rispose il Messaggero.
Placata momentaneamente quella disputa, Zeus tentò di riportare l'attenzione dei presenti sugli sposi, e brindisi dopo brindisi si convinse di esserci riuscito: la radura si era fatta di nuovo festosa, animata da canti, balli e note di lira.
Ma dentro di sé tutti sapevano che l'atmosfera non era la stessa di prima.
Le tre Dee non si parlavano, continuando a sfidarsi con lo sguardo, ed era sufficiente che i presenti si rilassassero appena un istante perché la loro mente tornasse ai tetri momenti in cui la Signora della Discordia aveva interrotto la festa, gettando sul tavolo quel pomo d'oro che tanto aveva reso battagliere le Dee. Ed era difficile per chiunque non chiedersi cosa sarebbe successo l'indomani, quando Paride avesse scelto a chi porgere l'ambito premio: era un pensiero stimolante, che infiammava di curiosità gli animi degli invitati e degli Dei stessi, distraendoli e impedendo loro di godere appieno dei festeggiamenti.
E lei, la diabolica Eris, l'artefice di tutto, dall'alto delle fronde rimase a vegliare su di loro fino al calar del sole, senza mai perdere il proprio sorriso.
Era estremamente fiera di sé. Quella della mela era stata una trovata geniale che aveva funzionato alla perfezione, assai meglio di quanto si fosse aspettata. E quando ne ebbe avuto abbastanza di spiare dall'alto sposi e partecipanti, la Dea si alzò in piedi e distese le lunghe ali nere, pronta ad abbandonare quella sontuosa festa a cui era riuscita a presenziare pur non essendo stata invitata.
«Dormite bene, sciocche Dee dalla vanità insaziabile. Domani ci sarà da divertirsi» sibilò a fior di labbra, sorridendo maligna. Infine spiccò il volo, scomparendo nel buio della sera.

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