lunedì 28 marzo 2016

MIO (Ares ed Eris)

ATTENZIONE:   il racconto contiene scene di sesso esplicito e violenza.


Il Dio Apollo, alla guida del leggendario carro d'oro trainato da cavalli dalla bionda criniera, accompagnò il sole oltre le mura della città di Anfipoli, irrorando con la soffice luce del tramonto quelle aride terre straziate dagli orrori della guerra. E avvertendo sopra e dentro di sé la fine di quell'ennesima giornata rossa di sangue, con un ruggito che scosse il cielo i due generali nemici ordinarono ai propri soldati di indietreggiare e subito quella mischia di uomini pronti a macellarsi l'un l'altro si diradò; gli eserciti si separarono e si ricompattarono pochi metri più indietro; il furore della battaglia si placò ma non si spense, pronto a riaccendersi qualche ora più tardi, alle prime luci dell'alba.
Anfipoli, da anni sotto il controllo diretto di Atene, era per gli ateniesi una base di rifornimento preziosa dalla quale provenivano l'oro, il grano e soprattutto il legname necessario per la flotta, vero pilastro della potenza militare della città attica. E in quanto base di vitale importanza essa aveva conquistato l'interesse degli spartani, determinati a prenderne il controllo al fine di danneggiare la storica rivale; perché quello tra Atena e Sparta era un odio antico, una fiamma che poteva indebolirsi ma che non si sarebbe spenta mai, neppure al calar del sole e al crollare di tutte le energie fisiche e mentali dei militari che da questo astio si facevano guidare.
Separati nei rispettivi schieramenti, i soldati ateniesi e i guerrieri spartani si scrutarono con diffidenza, con le lance ancora ritte e gli scudi alzati, in attesa che fossero gli avversari i primi a calarli e a mostrarsi pronti ad accettare l'interruzione del conflitto per la pausa notturna.
Nel mezzo, in quello spazio immenso dove fino a pochi istanti prima si erano tutti mescolati in un fracasso metallico di spade, lance e urla di rabbia, i feriti si contorcevano agonizzanti: chi folgorato da un pugnale nel petto, chi lacerato da un fendente di spada che gli aveva squarciato una gamba. Gemevano, pallidi per il terrore della morte e per il sangue che dalle ferite scorreva a bagnare il terreno; alcuni di essi, quelli che avevano avuto la fortuna di farsi unicamente tramortire e spezzare qualche osso e che ancora conservavano tutti gli organi interni integri, strisciavano a fatica in direzione dei compagni che avevano rotto le file, spinti dal feroce desiderio di portare in salvo la pelle.
E tra i feriti, i morti giacevano immobili: corpi d'uomini che parevano quasi addormentati e che, anche quella sera, si presentarono alla vista dei soldati sopravvissuti coi quali avevano combattutto fianco a fianco fino ad allora, e senza muovere un solo muscolo né proferendo parola mostrarono loro il lato più oscuro e tremendo della guerra. Uno spettacolo macabro, che nel suo silenzio suonava come una profezia.
Brasida, valoroso generale dell'esercito spartano, fu il primo a spezzare quella tensione. Scrutò un'ultima volta i soldati ateniesi allineati sulle prime file, volse il capo e con la mano fece cenno ai suoi guerrieri di andare a recuperare i feriti: un gesto privo di aggressività, che conquistò la fiducia degli ateniesi che subito calarono le armi.
Ansimanti e stremati, i due schieramenti tornarono sul campo ad assistere i propri feriti. Gli sguardi non si incrociarono, le lance e gli scudi rimasero bassi: per quanto intenso fosse l'odio che legava ateniesi e spartani, nulla poteva contro quella legge morale che imponeva a chiunque, anche al guerriero più truce, di concedere al nemico il diritto di soccorrere i propri feriti al termine della battaglia e di offrire degna sepoltura a chi in quegli scontri aveva perso la vita.
Nessuno avrebbe osato attaccare, non in un simile frangente, e ogni soldato ne era consapevole.
I primi a ricevere soccorso furono i feriti che non avevano perso l'uso delle gambe e che, tra tutti, erano i più vigili: i compagni li sollevarono di peso e li scortarono fuori dal campo, gli ateniesi in direzione del cancello principale della città, gli spartani dalla parte opposta, verso l'accampamento. I feriti giudicati insalvabili non vennero spostati e là rimasero, ad attendere la morte. Sarebbero stati recuperati più tardi insieme ai morti, dopo che si fosse tentato di salvare il maggior numero possibile di unità che nonostante le ferite potevano essere ancora utili per il conflitto dei giorni seguenti.
E in mezzo a quel lento affaccendarsi di soldati a schiena china, intenti a frugare tra i corpi alla ricerca di un commilitone che non fosse irrecuperabilmente moribondo, Eris, Dea della Discordia, saltellava leggera come una fanciulla in un campo di fiori: le ali spalancate, a sfiorare il soffio della brezza serale; i capelli selvaggi, sciolti sulla schiena; la lunga veste nera, che dondolava ad ogni suo passo scoprendole le caviglie.
Sorrideva, appagata da tutta la sofferenza che come un morbo appestava l'aria.
Non era visibile ai mortali, che in quanto tali avrebbero potuto percepire la sua figura solo se lei lo avesse voluto, e ridendo sfilava tra loro concedendosi qualche piroetta di tanto in tanto.
Amava la guerra, l'astio, il rancore e in essi sguazzava, deliziata e incapace di trattenere tutto il piacere e l'euforia che sentiva nel corpo.
Ad un certo punto si fermò.
Chinò il capo e per qualche istante lo fece dondolare a destra e a sinistra con fare pensieroso. Poi si voltò, lanciando un'occhiata alle proprie spalle.
«Fratello!» gridò tornando subito a guardare giù. «Vieni a vedere questo pezzente!»
Ares, Dio della Guerra, era ritto poco più indietro, anche lui invisibile presenza in mezzo ai soldati. Fiero e possente, incarnava l'ideale del guerriero assetato di sangue al quale gli spartani, da sempre suoi fedeli seguaci, si erano rivolti con preghiere assidue e sacrifici rituali affinché li conducesse alla vittoria. E il Dio, a loro completa insaputa, li aveva accontentati scendendo di persona per guidarli alla conquista di Anfipoli.
Ovviamente non si stava sporcando le mani per far loro un favore: di offrire la gloria eterna agli uomini di Sparta o a quell'arrogante di Brasida, che aveva salvato più di una volta da morte certa ma che lui, pieno di sé, continuava a lodare unicamente se stesso e le proprie capacità, ad Ares non importava nulla.
Era là per fare un torto ad Atena, protettrice degli ateniesi.
La Dea della Saggezza e della Guerra Nobile da sempre riteneva i soldati attici di gran lunga superiori agli spartani e Ares era intenzionato a distruggere le sue convinzioni facendo cadere Anfipoli e, di conseguenza, la flotta ateniese della quale la Dea era molto orgogliosa.
Tra i due non correva buon sangue e ogni volta che un popolo devoto al Dio della Guerra si scontrava con gli ateniesi, le cui mire espansionistiche avevano scatenato più di una guerra negli ultimi anni, quegli antichi contrasti si rinvigorivano portandoli a scontrarsi sul campo di battaglia.
Ma ad Anfipoli Atena non si era ancora fatta vedere.
Ares era certo che dall'Olimpo stesse seguendo con regolarità la guerra e che sarebbe scesa tra i suoi soldati non appena questi fossero stati in drammatica difficoltà: perché per il momento la città stava resistendo e, per quanto gli dolesse ammetterlo, erano gli spartani quelli ad aver subito le perdite più ingenti.
Eppure lui non se ne faceva un problema.
Era là per tentare di infastidire e umiliare Atena ma anche, e soprattutto, per divertirsi.
Amava combattere: affondare la lancia nella corazza del nemico, sentire la carne che si apriva, gli organi e le ossa che opponevano resistenza... e poi estrarla, ammirare le gocce di sangue che come rubini scintillavano nell'azzurro del cielo... e quel grido di dolore... il grido straziato di chi non immaginava che si potesse soffrire così tanto...
La guerra faceva parte di lui e gli donava emozioni forti, alle quali non avrebbe mai potuto rinunciare e che Eris, con la sua oscura presenza, contribuiva a rendere ancora più sublimi.
La adorava.
Adorava il suo animo nero, la sua sete di discordia, il modo in cui gli volava intorno nella foga della battaglia, leggera ma tetra come un cattivo presagio. E come gli sussurrava all'orecchio parole di fuoco, spingendolo a fare strage di uomini attorno a sé...
Uccidili, Ares!
Affonda la tua lancia in questi miseri cuori mortali e scaraventali tutti nell'ADE!
Uccidili!
UCCIDILI TUTTI!
Ed eccitato da lei, Ares uccideva fino a non capire più niente, fino a trucidare in quella mischia di guerrieri anche qualche soldato spartano, povera vittima della sua euforia, e dal sorgere del sole fino al suo tramontare uccideva, uccideva e uccideva, senza fermarsi un solo istante.
Ed era meraviglioso.
La guerra era meravigliosa.
Eris era meravigliosa.
Ma quando lei lo chiamò, Ares la guardò con poco entusiasmo, quasi si fosse dimenticato quanto bello fosse contemplarla mentre sfilava tra i morti, con quel sorriso perverso disteso sulle labbra.
Era sfinito, soddisfatto da quell'appagante giornata ma desideroso di ritirarsi. Si era già sfilato l'elmo, ora retto sottobraccio; i capelli erano umidi di sudore, la corazza impolverata e schizzata di sangue nemico.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea, un po' infastidita. «Avvicinati! Guarda quanto è patetica la faccia di questo miserabile!»
Il Dio conficcò con un gesto secco la lancia nel terreno; si levò lo scudo e lo lasciò cadere.
Sorridente e a piedi nudi, Eris salì sull'addome di quel soldato morente disteso a terra e vi si accovacciò sopra, come una ninfa inginocchiata ad ammirare un fiore particolarmente bello.
Il soldato apparteneva all'esercito spartano ma alla Dea, che come il fratello stava supportando Sparta, il suo schieramento non importava. Partecipava alle guerre per puro piacere e non si impegnava affinché un esercito, piuttosto che un altro, salisse sul podio della vittoria. Per lei erano tutti uguali e di essi rideva allo stesso modo.
Accucciata e con lo sguardo ora più acceso, spalancò le ali al massimo della loro estensione e rivelò la propria presenza al guerriero.
E quando gli occhi del pover'uomo incontrarono quelli ambrati della Dea, l'orrore che provò fu più pungente del pugnale che gli aveva perforato lo stomaco. Sussultò e la paura gli fece andare di traverso quel grumo di sangue e saliva che gli riempiva la gola e i polmoni. Tossì e un rivolo di sangue gli scivolò dall'angolo della bocca e corse giù.
«O mortale...» sibilò la dea sorridendo crudele. «Non trascorrere in tal modo i tuoi ultimi momenti di esistenza terrena. È forse così che vuoi essere ricordato? Come un poveraccio che poco prima di discendere nell'Ade si mise a tremare e tossire con occhi lucidi di paura?»
Il guerriero gorgogliò, incapace di proferire parola. Pallido in volto continuava a fissare quella tetra figura sopra di sé, terrorizzato ma incapace di staccare gli occhi da essa. Una lacrima gli scivolò dal bordo dell'occhio e sparì tra la pelle del viso e l'elmo.
Eris si morse un labbro, il suo sguardo si fece più affilato. Piegò le ali a guscio, a cingere il soldato, e in quello spazio protetto gli si avvicinò come se volesse confidare un segreto a lui e a lui solamente. «Desideri piangere, misero mortale? Temi a tal punto la venuta del Dio Thanatos da frignare come una fanciulla? Non provi disgusto per la tua persona?»
Il soldato sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Gorgogliò ancora, soffocato dal sangue che risaliva per la gola e tornava giù, in cavità dove non avrebbe dovuto andare.
Eris si allontanò dal suo viso e chinò il capo, a guardare il pugnale che chissà chi gli aveva conficcato nell'addome. Ne ammirò l'elsa intarsiata, la sfiorò con le dita. «Bello questo pugnale... ottima manifattura. Ti dispiace se quando crepi lo prendo?»
Il soldato non rispose, paralizzato dal terrore, ed Eris sorrise di più, con più gusto ancora. «Lascia che ti aiuti. Così facciamo prima...» sussurrò e con violenza spinse il pugnale a fondo.
Il guerriero scattò all'istante come folgorato, un grido gli striscò fuori dalla bocca. Sollevò le braccia nel tentativo di afferrare il pugnale ma le forze lo abbandonarono.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea senza staccare gli occhi dallo spartano. «Sbrigati! Vieni a vedere come piange questo vigliacco, prima che muoia!»
Il Dio rivolse alla sorella un gesto stizzito, di chi non è minimamente interessato. Si voltò, deciso ad andarsene.
Eris, intravedendolo con la coda dell'occhio, estrasse il pugnale facendo di nuovo gemere il guerriero, e ancora lucido di sangue se lo agganciò al cordino che le stringeva la lunga veste sui fianchi. «Te ne vai di già?» domandò alzandosi in piedi.
«Sì.» Il Dio si passò il palmo della mano sulla fronte, ad asciugare il sudore. «Sono stanco.»
«Femminuccia.»
«Taci» replicò secco, voltandosi di nuovo verso di lei. «Sono io che da mattina a sera combatto e uccido sotto il sole senza un attimo di tregua, mentre tu svolazzi allegramente qua e là come un gabbiano molesto senza fare nulla di utile!»
Eris rise sguaiatamente, come se il fratello avesse appena detto la battuta del secolo. «Oh, quanto sei stupido a pensare una cosa simile! Il contributo che do alla causa è evidente. Senza di me al tuo fianco ti saresti già fatto infilzare il didietro da cento ateniesi, quindi ringraziami!»
Ares sputò a terra e si passò il dorso della mano sulle labbra. Con un cenno del capo indicò lo scudo e la lancia abbandonati a terra. «Portameli in tenda» ordinò con tono autoritario. «Dai il tuo contributo alla causa.»
«Scordatelo. Non sono la tua sguattera.»
Il Dio si voltò senza rispondere, privo com'era delle energie e della voglia necessarie per tenere testa alle sciocche provocazioni della sorella, e rapido si incamminò in direzione dell'accampamento degli spartani.
La Dea, come se nulla fosse, riprese a sfilare e danzare di nuovo tra i morti. «Ci vediamo in tenda!» gridò al fratello ormai lontano e lui, con un cenno della mano, le fece capire che l'aveva udita.

venerdì 11 marzo 2016

IL SOLE E L'ALLORO (Apollo e Dafne)




Per il dio del sole il primo amore fu violento e amaro quanto il veleno, e quell’amarezza precipitò dei e mortali nell’oscurità. Non vi fu luce per giorni, la notte prese il controllo del tempo. Apollo trascurò il cielo, dimenticò la lira e i propri doveri perché nulla oramai era più importante di Dafne, la bella ninfa che gli aveva rubato il cuore. Persino la sorella Artemide, dea della caccia e della luna, che dall'alba dei tempi egli inseguiva e corteggiava e che aveva sempre considerato la fanciulla più desiderabile tra tutte, l'unica capace di farlo tremare con un solo sguardo, era scomparsa dai suoi pensieri; svanita, come un pensiero importante smarrito in un attimo di disattenzione. E da quel caos interiore, da quella nebbia mentale che continuava a presentargli il viso dell'amata Dafne, il dio del sole non poteva e non voleva fuggire.
Era tutta opera di Eros, dio della passione amorosa.
Apollo l’aveva ingenuamente offeso e sfidato, sminuendo la potenza del suo arco e di quelle frecce all’apparenza insignificanti, e adesso, punito per la sua presunzione, avrebbe potuto gridare, strapparsi i capelli, graffiarsi il petto e impazzire d’amore per quell’umile ninfa e niente e nessuno avrebbe potuto salvarlo. Le emozioni fluivano dal suo cuore come le lacrime che ogni giorno scendevano a rigargli le guance e quel pianto era doloroso, bruciante, folle. Piangeva quando non poteva vedere Dafne, quando doveva cercarla e aspettare, e la passione che gli ardeva dentro era così intensa da togliergli il respiro.
Vi era stato un altro che come lui aveva lottato per conquistare il cuore di Dafne, facendosi a tutti gli effetti suo rivale in amore: Leucippo, un principe mortale.
Per stare vicino a Dafne, che vergine e diffidente allontanava da sé ogni uomo, il giovane si era travestito da donna guadagnando così la fiducia della ninfa e delle sue compagne, sacerdotesse di Gea, dea della terra nonché madre della fanciulla. E Apollo, per amore di quella vendetta che sapeva di dover gustare fredda al fine di trarre il massimo della soddisfazione, aveva ignorato a fatica il richiamo della gelosia, quella feroce e accecante gelosia che attraverso la voce della dea Eris, signora della discordia e dell'astio, gli aveva sussurrato all'orecchio cercando di accendere il suo desiderio di sangue.
A PEZZI! Fallo a pezzi! Nessuno piangerà mai questo omuncolo senza gloria! Scocca cento frecce su quella testa vuota e squarciala come una noce!
Ma Apollo aveva scelto di non sporcarsi le mani bensì di compiere la propria vendetta con quella squisita eleganza che da sempre lo caratterizzava e della quale era molto orgoglioso. Allora si era insinuato subdolamente nella mente delle fanciulle come una cattiva idea e aveva suggerito loro di officiare i riti sacri nude, per essere più pure al cospetto di Gea. E quando Leucippo era stato smarcherato il dio aveva riso di gusto, e quanto era stato bello ridere dopo tanto tempo! C'erano state grida, suppliche, lacrime: il giovane si era prostrato a terra disperato ma le sacerdotesse di Gea non avevano perdonato quell’infamia, quel disgustoso tentativo di insidiare Dafne con l'inganno, e decise a lavare via l'onta lo avevano ucciso. Nessuna pietà per i traditori.
E ora che Leucippo era morto, fra Apollo e la sua graziosa ninfa non vi erano più ostacoli. Ora sarebbe stato tutto più facile, il vero amore avrebbe trionfato, e come rinvigorito da quella consapevolezza il sole splendeva di nuovo, più meraviglioso che mai. Il dio era raggiante.

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Quella mattina Dafne era andata al bosco e Apollo lo sapeva: la stava cercando. Si sarebbe dichiarato a lei e le avrebbe mostrato tutta la sua luce, il suo amore, la sua devozione. Ritto e sicuro di sé, non era scosso da moti di timidezza né da quelle sciocche paranoie tipiche dei mortali innamorati. Non temeva un rifiuto: era un dio, il più bello dell’Olimpo e per questo Dafne l’avrebbe amato. Apollo ne era certo.
Ma egli non sapeva che Eros aveva trafitto il cuore della ninfa con una freccia di piombo: una freccia spuntata, differente da quelle d’oro dell’amore, che avrebbe portato la fanciulla a reagire con orrore e repulsione alla passione del dio. Era già tutto scritto, tutto deciso, ma i due ancora non lo sapevano. 
Eccola!
Apollo sentì un piacevole tuffo al cuore. Dafne era là, accucciata accanto a un cespuglio di rovi. Stava raccogliendo delle more; la veste turchese, i capelli raccolti con cura sopra la nuca, i piedi nudi e perfetti, da dea…
Apollo, voglioso di stringerla fra le braccia e incapace di resistere ancora, le fu davanti.
«Sei tu» disse porgendole morbidamente la mano. «Dolce figlia di Peneo e della Terra. Dafne. Mia musa e unico amore.»
La ninfa, sorpresa, sollevò gli occhi color nocciola e incontrò quelli verdi del dio. Subito scattò in piedi. Le more le caddero dalle mani, il corpo intero si irrigidì. «Ti prego, vai via!» esclamò facendo un passo indietro.
Quelle parole colpirono Apollo in pieno viso come uno schiaffo. Arrossì violentemente, ritirò la mano: non era preparato a ricevere un rifiuto. Abbozzò un sorriso incerto che in un attimo si fece trionfante. Decise di offrire subito il meglio di sé. «La tua ingenuità parla per te, ma lo comprendo. Sono il dio Apollo, fanciulla. È mio il sole che ti accarezza le gote al mattino, e mia è la luce che ti accompagna quando ti incammini al tempio a pregare. Il mio nome ti è noto e io ora sono qua, dinnanzi a te. Sei bella, Dafne. Libera come la brezza della sera ed elegante quanto Afrodite. Da troppo tempo questo dio piange per te. Ti prego, rendilo degno del tuo amore. Non rifiutare.» Apollo tese di nuovo la mano alla ninfa più splendido che mai: alto, biondo, sorridente. Nessuna mortale sarebbe stata così folle da rifiutarlo ed egli lo sapeva bene.
Ma Dafne era immune al suo fascino e ne sembrava addirittura terrorizzata. Scosse la testa in segno di rifiuto e rapida si voltò, decisa ad andarsene.