Il Dio Apollo, alla guida del leggendario carro d'oro
trainato da cavalli dalla bionda criniera, accompagnò il sole oltre le mura
della città di Anfipoli, irrorando con la soffice luce del tramonto quelle
aride terre straziate dagli orrori della guerra. E avvertendo sopra e dentro di
sé la fine di quell'ennesima giornata rossa di sangue, con un ruggito che
scosse il cielo i due generali nemici ordinarono ai propri soldati di
indietreggiare e subito quella mischia di uomini pronti a macellarsi l'un
l'altro si diradò; gli eserciti si separarono e si ricompattarono pochi metri
più indietro; il furore della battaglia si placò ma non si spense, pronto a
riaccendersi qualche ora più tardi, alle prime luci dell'alba.
Anfipoli, da anni sotto il controllo diretto di Atene, era
per gli ateniesi una base di rifornimento preziosa dalla quale provenivano
l'oro, il grano e soprattutto il legname necessario per la flotta, vero
pilastro della potenza militare della città attica. E in quanto base di vitale
importanza essa aveva conquistato l'interesse degli spartani, determinati a
prenderne il controllo al fine di danneggiare la storica rivale; perché quello
tra Atena e Sparta era un odio antico, una fiamma che poteva indebolirsi ma che
non si sarebbe spenta mai, neppure al calar del sole e al crollare di tutte le
energie fisiche e mentali dei militari che da questo astio si facevano guidare.
Separati nei rispettivi schieramenti, i soldati ateniesi e i
guerrieri spartani si scrutarono con diffidenza, con le lance ancora ritte e
gli scudi alzati, in attesa che fossero gli avversari i primi a calarli e a
mostrarsi pronti ad accettare l'interruzione del conflitto per la pausa
notturna.
Nel mezzo, in quello spazio immenso dove fino a pochi
istanti prima si erano tutti mescolati in un fracasso metallico di spade, lance
e urla di rabbia, i feriti si contorcevano agonizzanti: chi folgorato da un
pugnale nel petto, chi lacerato da un fendente di spada che gli aveva
squarciato una gamba. Gemevano, pallidi per il terrore della morte e per il
sangue che dalle ferite scorreva a bagnare il terreno; alcuni di essi, quelli
che avevano avuto la fortuna di farsi unicamente tramortire e spezzare qualche
osso e che ancora conservavano tutti gli organi interni integri, strisciavano a
fatica in direzione dei compagni che avevano rotto le file, spinti dal feroce
desiderio di portare in salvo la pelle.
E tra i feriti, i morti giacevano immobili: corpi d'uomini
che parevano quasi addormentati e che, anche quella sera, si presentarono alla
vista dei soldati sopravvissuti coi quali avevano combattutto fianco a fianco
fino ad allora, e senza muovere un solo muscolo né proferendo parola mostrarono
loro il lato più oscuro e tremendo della guerra. Uno spettacolo macabro, che
nel suo silenzio suonava come una profezia.
Brasida, valoroso generale dell'esercito spartano, fu il
primo a spezzare quella tensione. Scrutò un'ultima volta i soldati ateniesi
allineati sulle prime file, volse il capo e con la mano fece cenno ai suoi
guerrieri di andare a recuperare i feriti: un gesto privo di aggressività, che
conquistò la fiducia degli ateniesi che subito calarono le armi.
Ansimanti e stremati, i due schieramenti tornarono sul campo
ad assistere i propri feriti. Gli sguardi non si incrociarono, le lance e gli
scudi rimasero bassi: per quanto intenso fosse l'odio che legava ateniesi e
spartani, nulla poteva contro quella legge morale che imponeva a chiunque,
anche al guerriero più truce, di concedere al nemico il diritto di soccorrere i
propri feriti al termine della battaglia e di offrire degna sepoltura a chi in
quegli scontri aveva perso la vita.
Nessuno avrebbe osato attaccare, non in un simile frangente,
e ogni soldato ne era consapevole.
I primi a ricevere soccorso furono i feriti che non avevano
perso l'uso delle gambe e che, tra tutti, erano i più vigili: i compagni li
sollevarono di peso e li scortarono fuori dal campo, gli ateniesi in direzione
del cancello principale della città, gli spartani dalla parte opposta, verso
l'accampamento. I feriti giudicati insalvabili non vennero spostati e là
rimasero, ad attendere la morte. Sarebbero stati recuperati più tardi insieme
ai morti, dopo che si fosse tentato di salvare il maggior numero possibile di
unità che nonostante le ferite potevano essere ancora utili per il conflitto
dei giorni seguenti.
E in mezzo a quel lento affaccendarsi di soldati a schiena
china, intenti a frugare tra i corpi alla ricerca di un commilitone che non
fosse irrecuperabilmente moribondo, Eris, Dea della Discordia, saltellava
leggera come una fanciulla in un campo di fiori: le ali spalancate, a sfiorare
il soffio della brezza serale; i capelli selvaggi, sciolti sulla schiena; la
lunga veste nera, che dondolava ad ogni suo passo scoprendole le caviglie.
Sorrideva, appagata da tutta la sofferenza che come un morbo
appestava l'aria.
Non era visibile ai mortali, che in quanto tali avrebbero
potuto percepire la sua figura solo se lei lo avesse voluto, e ridendo sfilava
tra loro concedendosi qualche piroetta di tanto in tanto.
Amava la guerra, l'astio, il rancore e in essi sguazzava,
deliziata e incapace di trattenere tutto il piacere e l'euforia che sentiva nel
corpo.
Ad un certo punto si fermò.
Chinò il capo e per qualche istante lo fece dondolare a
destra e a sinistra con fare pensieroso. Poi si voltò, lanciando un'occhiata
alle proprie spalle.
«Fratello!» gridò tornando subito a guardare giù. «Vieni a
vedere questo pezzente!»
Ares, Dio della Guerra, era ritto poco più indietro, anche
lui invisibile presenza in mezzo ai soldati. Fiero e possente, incarnava
l'ideale del guerriero assetato di sangue al quale gli spartani, da sempre suoi
fedeli seguaci, si erano rivolti con preghiere assidue e sacrifici rituali
affinché li conducesse alla vittoria. E il Dio, a loro completa insaputa, li
aveva accontentati scendendo di persona per guidarli alla conquista di
Anfipoli.
Ovviamente non si stava sporcando le mani per far loro un
favore: di offrire la gloria eterna agli uomini di Sparta o a quell'arrogante
di Brasida, che aveva salvato più di una volta da morte certa ma che lui, pieno
di sé, continuava a lodare unicamente se stesso e le proprie capacità, ad Ares
non importava nulla.
Era là per fare un torto ad Atena, protettrice degli
ateniesi.
La Dea della Saggezza e della Guerra Nobile da sempre
riteneva i soldati attici di gran lunga superiori agli spartani e Ares era
intenzionato a distruggere le sue convinzioni facendo cadere Anfipoli e, di
conseguenza, la flotta ateniese della quale la Dea era molto orgogliosa.
Tra i due non correva buon sangue e ogni volta che un popolo
devoto al Dio della Guerra si scontrava con gli ateniesi, le cui mire
espansionistiche avevano scatenato più di una guerra negli ultimi anni, quegli
antichi contrasti si rinvigorivano portandoli a scontrarsi sul campo di
battaglia.
Ma ad Anfipoli Atena non si era ancora fatta vedere.
Ares era certo che dall'Olimpo stesse seguendo con
regolarità la guerra e che sarebbe scesa tra i suoi soldati non appena questi
fossero stati in drammatica difficoltà: perché per il momento la città stava
resistendo e, per quanto gli dolesse ammetterlo, erano gli spartani quelli ad
aver subito le perdite più ingenti.
Eppure lui non se ne faceva un problema.
Era là per tentare di infastidire e umiliare Atena ma anche,
e soprattutto, per divertirsi.
Amava combattere: affondare la lancia nella corazza del
nemico, sentire la carne che si apriva, gli organi e le ossa che opponevano
resistenza... e poi estrarla, ammirare le gocce di sangue che come rubini
scintillavano nell'azzurro del cielo... e quel grido di dolore... il grido
straziato di chi non immaginava che si potesse soffrire così tanto...
La guerra faceva parte di lui e gli donava emozioni forti,
alle quali non avrebbe mai potuto rinunciare e che Eris, con la sua oscura
presenza, contribuiva a rendere ancora più sublimi.
La adorava.
Adorava il suo animo nero, la sua sete di discordia, il modo
in cui gli volava intorno nella foga della battaglia, leggera ma tetra come un
cattivo presagio. E come gli sussurrava all'orecchio parole di fuoco,
spingendolo a fare strage di uomini attorno a sé...
Uccidili, Ares!
Affonda la tua lancia in questi miseri cuori mortali e
scaraventali tutti nell'ADE!
Uccidili!
UCCIDILI TUTTI!
Ed eccitato da lei, Ares uccideva fino a non capire più
niente, fino a trucidare in quella mischia di guerrieri anche qualche soldato
spartano, povera vittima della sua euforia, e dal sorgere del sole fino al suo
tramontare uccideva, uccideva e uccideva, senza fermarsi un solo istante.
Ed era meraviglioso.
La guerra era meravigliosa.
Eris era meravigliosa.
Ma quando lei lo chiamò, Ares la guardò con poco entusiasmo,
quasi si fosse dimenticato quanto bello fosse contemplarla mentre sfilava tra i
morti, con quel sorriso perverso disteso sulle labbra.
Era sfinito, soddisfatto da quell'appagante giornata ma
desideroso di ritirarsi. Si era già sfilato l'elmo, ora retto sottobraccio;
i capelli erano umidi di sudore, la corazza impolverata e schizzata di sangue
nemico.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea, un po' infastidita.
«Avvicinati! Guarda quanto è patetica la faccia di questo miserabile!»
Il Dio conficcò con un gesto secco la lancia nel terreno; si
levò lo scudo e lo lasciò cadere.
Sorridente e a piedi nudi, Eris salì sull'addome di quel
soldato morente disteso a terra e vi si accovacciò sopra, come una ninfa
inginocchiata ad ammirare un fiore particolarmente bello.
Il soldato apparteneva all'esercito spartano ma alla Dea,
che come il fratello stava supportando Sparta, il suo schieramento non
importava. Partecipava alle guerre per puro piacere e non si impegnava affinché
un esercito, piuttosto che un altro, salisse sul podio della vittoria. Per lei
erano tutti uguali e di essi rideva allo stesso modo.
Accucciata e con lo sguardo ora più acceso, spalancò le ali
al massimo della loro estensione e rivelò la propria presenza al guerriero.
E quando gli occhi del pover'uomo incontrarono quelli
ambrati della Dea, l'orrore che provò fu più pungente del pugnale che gli aveva
perforato lo stomaco. Sussultò e la paura gli fece andare di traverso quel
grumo di sangue e saliva che gli riempiva la gola e i polmoni. Tossì e un
rivolo di sangue gli scivolò dall'angolo della bocca e corse giù.
«O mortale...» sibilò la dea sorridendo crudele. «Non
trascorrere in tal modo i tuoi ultimi momenti di esistenza terrena. È forse
così che vuoi essere ricordato? Come un poveraccio che poco prima di discendere
nell'Ade si mise a tremare e tossire con occhi lucidi di paura?»
Il guerriero gorgogliò, incapace di proferire parola.
Pallido in volto continuava a fissare quella tetra figura sopra di sé,
terrorizzato ma incapace di staccare gli occhi da essa. Una lacrima gli scivolò
dal bordo dell'occhio e sparì tra la pelle del viso e l'elmo.
Eris si morse un labbro, il suo sguardo si fece più
affilato. Piegò le ali a guscio, a cingere il soldato, e in quello spazio
protetto gli si avvicinò come se volesse confidare un segreto a lui e a lui
solamente. «Desideri piangere, misero mortale? Temi a tal punto la venuta del
Dio Thanatos da frignare come una fanciulla? Non provi disgusto per la tua
persona?»
Il soldato sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Gorgogliò
ancora, soffocato dal sangue che risaliva per la gola e tornava giù, in cavità dove non avrebbe dovuto
andare.
Eris si allontanò dal suo viso e chinò il capo, a guardare
il pugnale che chissà chi gli aveva conficcato nell'addome. Ne ammirò l'elsa
intarsiata, la sfiorò con le dita. «Bello questo pugnale... ottima manifattura.
Ti dispiace se quando crepi lo prendo?»
Il soldato non rispose, paralizzato dal terrore, ed Eris
sorrise di più, con più gusto ancora. «Lascia che ti aiuti. Così facciamo
prima...» sussurrò e con violenza spinse il pugnale a fondo.
Il guerriero scattò all'istante come folgorato, un grido gli
striscò fuori dalla bocca. Sollevò le braccia nel tentativo di afferrare il
pugnale ma le forze lo abbandonarono.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea senza staccare gli occhi dallo
spartano. «Sbrigati! Vieni a vedere come piange questo vigliacco, prima che
muoia!»
Il Dio rivolse alla sorella un gesto stizzito, di chi non è
minimamente interessato. Si voltò, deciso ad andarsene.
Eris, intravedendolo con la coda dell'occhio, estrasse il
pugnale facendo di nuovo gemere il guerriero, e ancora lucido di sangue se lo
agganciò al cordino che le stringeva la lunga veste sui fianchi. «Te ne vai di
già?» domandò alzandosi in piedi.
«Sì.» Il Dio si passò il palmo della mano sulla fronte, ad
asciugare il sudore. «Sono stanco.»
«Femminuccia.»
«Taci» replicò secco, voltandosi di nuovo verso di
lei. «Sono io che da mattina a sera combatto e uccido sotto il sole senza un
attimo di tregua, mentre tu svolazzi allegramente qua e là come un gabbiano
molesto senza fare nulla di utile!»
Eris rise sguaiatamente, come se il fratello avesse appena
detto la battuta del secolo. «Oh, quanto sei stupido a pensare una cosa simile!
Il contributo che do alla causa è evidente. Senza di me al tuo fianco ti
saresti già fatto infilzare il didietro da cento ateniesi, quindi ringraziami!»
Ares sputò a terra e si passò il dorso della mano sulle
labbra. Con un cenno del capo indicò lo scudo e la lancia abbandonati a terra.
«Portameli in tenda» ordinò con tono autoritario. «Dai il tuo contributo alla
causa.»
«Scordatelo. Non sono la tua sguattera.»
Il Dio si voltò senza rispondere, privo com'era delle
energie e della voglia necessarie per tenere testa alle sciocche provocazioni
della sorella, e rapido si incamminò in direzione dell'accampamento degli
spartani.
La Dea, come se nulla fosse, riprese a sfilare e danzare di
nuovo tra i morti. «Ci vediamo in tenda!» gridò al fratello ormai lontano e
lui, con un cenno della mano, le fece capire che l'aveva udita.