Monte Libano.
Un tempio a cielo
aperto dalle colonne di corteccia e l’aria che profuma di rugiada,
esplosione di verdi aceri, ginepri e querce dalla chioma possente
sotto la quale trovare riparo durante le ore di massima calura. E
proprio là, sotto a una di quelle querce ombrose, la dea Afrodite
sollevò la sua bianca veste dalle rifiniture d’oro e si sedé.
L’erba era morbida come un tappeto, fresca quanto la brezza che
solleticava le foglie e le ghiande sui rami. Afrodite, lunghi capelli
ramati e occhi blu oceano splendidi come gemme, era raggiante: le
labbra distese in un tenue sorriso, lo sguardo rivolto al bell’Adone,
suo amante. Era innamorata e l’amore la rendeva più incantevole
che mai.
E anche il giovane
Adone, figlio di re Cinira, sfoggiava una bellezza senza eguali.
Riccioli bruni, occhi dolci e profondi, corpo da atleta; il ragazzo
era un mortale come tanti ma il suo fascino era divino e la dea ne
era stata conquistata fin dal primo istante in cui i loro sguardi si
erano incontrati.
Adone si avvicinò
ad Afrodite; la muta di levrieri alle spalle, il capriolo trascinato
per i palchi con la freccia ancora conficcata nel collo. Il giovane
era un grande cacciatore e non ci aveva messo molto ad impadronirsi
di quella preda, caduta sotto agli occhi ammirati della dea che da
giorni lo accompagnava nei boschi per le battute di caccia.
Lasciò il
capriolo e si sedette sotto la quercia accanto ad Afrodite.
<<Desidero
un cervo. Un semplice capriolo non è degno di Voi.>>, disse.
La voce era bassa e stanca ma gli occhi brillavano di passione. <<Ne
catturerò uno prima del tramonto.>>
Afrodite sorrise.
Con delicatezza spostò una ciocca dalla fronte sudata del giovane.
<<Mio bell’Adone, non ti angustiare. Non ne hai motivo.
Dimentica il cervo e riposa. Sei affaticato, lascia che le mie
carezze ti donino sollievo.>>
<<Siete
tanto dolce e bella...>>, replicò il ragazzo mentre la
dea gli accarezzava il collo. <<La Vostra bellezza delizia i
miei sensi. È profumo di fiordaliso, vino d’uva pregiata, la prima
mela che placa la fame… è un piacere che non mi stanca mai.>>
<<Anche la
tua bellezza è per me fonte di piacere, meraviglioso amante
mio...>>, disse Afrodite poggiando il capo sulla spalla del
giovane. <<Ammirarti mi dà gioia, il tuo bel volto è per me
luce e ispirazione e orgoglio perciò lascia che io goda di te,
perché questo e solo questo mi offre appagamento...>>
Alle parole della
dea seguì il silenzio.
Adone, rilassato,
socchiuse gli occhi e si lasciò stordire da quelle lievi carezze al
petto, senza dire più nulla. E Afrodite, profondamente affascinata
da quel bel viso dai tratti delicati che avrebbe potuto superare in
bellezza persino il divino Apollo, pensò che mai e poi mai avrebbe
ceduto quel ragazzo ad un’altra, dea o mortale che fosse.
Perché vi era
davvero un’altra.
Un’altra che,
come lei, desiderava l’avvenente Adone tutto per sé perché di lui
si era perdutamente innamorata.
Il suo nome era
Persefone.
Anche lei, moglie
di Ade, dio degli Inferi, era attratta dal giovane e per lui aveva
apertamente sfidato Afrodite senza timore alcuno, e per risolvere la
disputa era stato necessario l’intervento della saggia musa
Calliope, che aveva deciso di offrire Adone a entrambe le contendenti
per uguale periodo di tempo. Il giovane avrebbe quindi passato
quattro mesi dell’anno con Afrodite, quattro mesi con Persefone e i
restanti quattro con una persona di sua scelta; così aveva deciso la
musa. Ma quella sentenza aveva lasciato insoddisfatta Afrodite, che
aveva così deciso di rubare a Persefone il tempo a cui aveva diritto
e tenersi Adone solamente per sé, sempre. Non l’avrebbe lasciato:
era suo e suo soltanto e nessuno glielo avrebbe portato via.
<<Voglio un
tuo bacio, Adone...>>, sussurrò la dea. <<Baciami ancora
e ancora. Dimmi che sono bellissima e che nulla, in cielo, in terra e
in mare è meraviglioso quanto noi due insieme...>>
<<Il vostro
divino corpo è eleganza e incanto e splendore. Bellissima, Voi, mia
Afrodite, che ingenuamente sperate che qualche parola sussurrata da
questo insignificante mortale sia in grado di descrivere la Vostra
accecante beltà. Ciò che dico è poco, conta meno del capriolo
steso ai nostri piedi. Vorrei appagarvi, offrirvi di più e di meglio
ma le parole e i miseri doni sono nulla di fronte a Voi, credetemi.
Perciò Vi prego, non chiedetemi parole né poesia né canti. La mia
mediocrità Vi offenderebbe. Accettate le mie labbra in silenzio e
unite la Vostra bellezza alla mia, e amatemi. Amatemi, mia
Afrodite...>> Adone prese fra le mani il viso della dea e i due
si baciarono a lungo all’ombra delle querce.
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Dai celesti cieli
dell’Olimpo, Ares, oscuro dio della guerra e della violenza,
vegliava con cuore furente su quell’amore. Dritto come un soldato
pronto alla battaglia, l’elmo sul capo e i muscoli tesi, spiava la
bella dea e il suo amante e ad ogni bacio e carezza i suoi occhi
d’ambra si facevano più accesi. Il mantello rosso, la lancia
stretta nel pugno, le labbra serrate in una smorfia di odio e
gelosia.
Ares amava
Afrodite e la sua passione era da tempo immemore ricambiata dalla
dea, che coi suoi morbidi abbracci gli rendeva più dolce il ritorno
sull’Olimpo dopo ogni battaglia. Erano uniti, per sempre stretti
nella morsa di Eros, e sebbene ci fossero altre fanciulle ad
allietare le sue notti di tanto in tanto, Ares sentiva di appartenere
ad Afrodite e sapeva di avere il suo amore. Ed era pientamente
consapevole che quelli della dea erano insulsi capricci d’amore,
nulla più che frivolezze passeggere, ma vedere le mani di quel
mortale correre indisturbate sul suo corpo, sulla sua
adorata dea, lo faceva bruciare d’ira.
E mentre era là,
immobile, a spiare le tenere effusioni dei due, la triste Persefone
gli parlò dagli Inferi dove era costretta a regnare per sei mesi
all’anno accanto al suo sposo.
Sussurrò
all’orecchio del dio, gli fu vicina seppure lontana.
<<Povero
Ares...>>, mormorò con un tono che era compatimento e scherno
assieme.
Il dio fece una
smorfia. Capì subito chi gli stava parlando e intuì cosa gli
sarebbe stato detto di lì a poco. Si voltò di nuovo verso gli
amanti.
<<Adone è
bello...>>, continuò Persefone. <<Bello quanto il
sole e la luna. Il suo corpo è perfetto, integro e puro come un
giglio e con cotanto fascino non puoi competere, tu, dio del sangue e
della mera brutalità. Il tuo viso è scuro, il tuo sguardo assetato
di grida e rosse ferite. In te vivono la guerra, la distruzione, il
furore. Non puoi competere con la sua bellezza.>>
Persefone lasciò
che qualche secondo di silenzio marcasse le sue parole.
Era in cerca di
vendetta: Afrodite aveva osato sfidarla e portarle via Adone non
rispettando così il volere di Calliope e le avrebbe fatto pagare
questo affronto. Trascinata negli Inferi con l’inganno, Persefone
non tollerava più menzogne e tradimenti ed era decisa a manipolare
il dio della guerra per vendicarsi della bella dea.
Rincarò la dose,
più determinata che mai. <<Accetta la sconfitta, Ares. Su
questo campo Adone ti batte. O stai davvero pensando di gareggiare
tra i belli? Tu?>>
<<Non ti
permetto di parlarmi in questo modo, donna!>>, ringhiò il dio
adirato. <<Taci, che non sai nulla!>>
<<So quello
che sanno e vedono tutti: Afrodite preferisce Adone a te. Ma non è
mia intenzione infierire né tormentare le tue ferite d’orgoglio e
ti chiedo perdono se le mie parole hanno accresciuto la tua rabbia.
Esprimere la mia pena per te, questo era il mio unico desiderio.
Addio, Ares.>>, disse Persefone e tacque.
Di nuovo solo con
la propria gelosia, Ares sentì l'ira crescere e bruciargli nel
petto. E più le mani di Adone scorrevano sulla pelle di Afrodite,
più il battito del dio aumentava; i pugni tremanti, lo sguardo
infuocato, il viso contratto in un ringhio da belva. La gelosia, così
simile al furore che sempre lo spingeva a tuffarsi in battaglia, si
impossessò di lui e lo dominò.
<<Bastardo
d'un mortale...Ora vedrai.>>, ruggì fra i denti e si
allontanò.
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Stretti nel loro
abbraccio amoroso, Afrodite e Adone si dimenticarono di essere in una
selva. I levrieri accucciati accanto al capriolo dormicchiavano
nell’attesa di un comando e l’aria era ferma, il silenzio
profondo. Afrodite, impaziente di riempire di sospiri quella calma
piatta, chiese al suo amante di sfilarle la veste. Adone poggiò le
mani sul pregiato tessuto, quand’ecco che si udì un fruscio.
Rami spezzati,
rumore di zoccoli.
I cani scattarono
e abbaiando si lanciarono fra gli alberi.
<<Deve
essere vicino!>>, esclamò Adone ora voltato dalla parte
opposta, dalla quale proveniva il rumore. <<Potrebbe essere un
cervo...>>
<<Che
importanza ha?>>, domandò la dea. <<È forse un cervo
più importante di me?>>
Adone sorrise
all’amante. Lei lo cinse con le braccia e lui tornò a baciarla, ma
l’abbaiare dei cani li interruppe nuovamente. Adone notò subito
che il loro abbaio era diverso, folle, come fossero terrorizzati, e
sussultò quando ne vide alcuni tornare col dorso ricurvo per la
paura. Mai erano indietreggiati di fronte a una preda prima d’allora.
Il giovane si alzò
in piedi. <<Temo si tratti di una bestia feroce.>>, disse
incoccando svelto una freccia.
Spaventata
Afrodite si rialzò e posò una mano sulla spalla di Adone. <<Ti
prego, andiamo via. Temo per la tua vita.>>
<<Non
dovete.>>, rispose lui senza guardarla, con la freccia puntata
verso la preda che si sarebbe svelata tra pochi istanti. <<Sono
esperto, le creature della selva non mi intimoriscono. Ma state
indietro, Vi prego. Non vorrei che Vi feriste.>>
Afrodite si
allontanò di qualche passo, circondata dai levrieri che erano
ritornati dal padrone e che ora ringhiavano sommessamente in
direzione della bestia che li aveva spaventati. Dal fitto fogliame
riemersero altri cani, veloci come conigli. Adone deglutì nervoso;
mai li aveva visti così impauriti. Che razza di creatura stava per
fronteggiare? Nella faretra gli restavano cinque frecce. Sarebbero
bastate?
Un tetro grugnito,
potente come un tuono, vibrò nella foresta ed ecco che dai cespugli
apparve la temuta bestia: un cinghiale alla carica.
Adone sobbalzò
per l’orrore. Vide le zanne bianche e grosse, la pelliccia ispida e
scura, gli occhi affilati e brillanti come gocce di resina. Non era
un cinghiale qualsiasi: era enorme, un vero mostro. Ed era furioso.
Assordato dagli
abbai dei suoi cani che assistevano alla scena a distanza senza
intervenire, Adone recuperò la concentrazione, mirò e scoccò la
freccia. Il cinghiale scattò a sinistra con sua grande sorpresa e la
freccia si perse fra le foglie di un acero. Svelto Adone ne prese
un'altra dalla faretra, la incoccò e la scagliò mirando agli occhi
del cinghiale ma per la seconda volta la bestia schivò, quasi fosse
dotata d’umano intelletto. Adone prese una terza freccia ma non
fece in tempo a incoccarla che il cinghiale lo travolse.
L’impatto fu
tremendo. Un atroce dolore alle gambe folgorò il cacciatore che volò
in aria e subito cadde schiantandosi al suolo di faccia.
Accadde tutto in
pochi attimi. Afrodite gridò sconvolta, l’abbaio dei cani si fece
più forte. Adone cercò di rialzarsi facendo leva sulle braccia ma
il cinghiale lo atterrò colpendolo con gli zoccoli delle zampe
anteriori. La veste del giovane si stracciò e si tinse di rosso
sotto ai colpi della bestia che implacabile continuava a massacrargli
la schiena.
Afrodite,
paralizzata dall’orrore, non poté fare altro che urlare nel
tentativo di scacciare l’animale, ma fu inutile: il cinghiale
continuò ad accanirsi con ferocia sulla sua vittima. Adone cercò di
gridare ma dalla bocca gli uscì un rantolo gorgogliante: i polmoni
si erano riempiti di sangue, lo scheletro si stava frantumando. Col
braccio che ancora si muoveva si aggrappò a un ciuffo d’erba e
provò a strisciare ma una zoccolata lo colpì alla testa e tutto si
fece grigio. Il giovane avvertì una sensazione di umido calore
all’orecchio destro; i rumori si fecero ovattati, le urla di
Afrodite lontane, sempre più lontane. Il cinghiale iniziò a
morderlo: affondò le zanne nella nuca, gli strappò una guancia, lo
girò a colpi di muso per accanirsi sui testicoli e sulle cosce.
Dopo interminabili
istanti di agonia, Adone morì e solo allora il cinghiale si fermò.
Afrodite gli
lanciò un’occhiata e quando lo vide indietreggiare si avvicinò
pallida e tremante, e rimase sconvolta nel vedere cosa era
diventato il suo amato: un corpo fradicio di sangue fatto di
brandelli di carne viva e qualche striscia di stoffa qua e là.
Orrendo, mostruoso, irriconoscibile.
Disperata pianse
il suo bell’Adone senza toccarlo, tanto era intenso il disgusto che
quel corpo martoriato le suscitava, ma il suo sangue le macchiò
ugualmente la veste: ce n’era così tanto sul terreno e sull’erba
che sembrava che l’intera foresta si fosse tinta di rosso. E
Afrodite, decisa a ricordare per l’eternità la rara bellezza del
giovane sfumata così in fretta, da quel sangue scuro che bagnava la
terra fece sbocciare dei fiori: gli anemoni.
<<Meraviglioso
anemone, tuo sarà il compito di ricordare al mondo, ora e per
sempre, il bel viso di Adone. Fiore del vento, vivrai magnifico e
sfiorirai al primo bacio di brezza, fragile come il figlio di Cinira
che sul Monte Libano trovò l’amore e la morte.>>
Afrodite si
strinse in un commosso silenzio, persa ad ammirare il letto di
anemoni che ora faceva da bara al corpo del giovane. Si asciugò le
lacrime e si voltò. I cani erano ancora nascosti tra gli alberi,
intimoriti dal cinghiale che non sembrava intenzionato ad
allontanarsi. La dea lo vide avvicinarsi di nuovo al corpo
martoriato: il muso era rosso, le zanne lucide di sangue. Ansimava
ancora per l’eccitazione dell'attacco.
Nauseata da quella
creatura, ora così vicina al punto che ella riusciva a sentire
l'odore acre e selvatico della sua pelliccia, Afrodite fece un passo
indietro ed ecco che il cinghiale mutò. Le sue forme scivolarono
morbide, il dorso si fece schiena e mantello rosso, la testa irsuta
mutò in elmo e viso d'uomo. L’animale scomparve e apparve Ares, inginocchiato come un penitente che supplica il perdono. Ma
non vi era rimorso alcuno negli occhi del dio, che si alzò maestoso
e fiero di fronte ad Afrodite.
<<TU!>>,
esclamò la dea sconvolta.
Ares non disse
nulla: aveva la bocca sporca di sangue e frammenti di ossa umane. Con
fare sprezzante sputò sui resti del rivale in amore, si passò il
dorso della mano sulle labbra e sorrise.
Furiosa e
disperata, Afrodite si schiantò sul petto di lui che l’afferrò e
la strinse, appagato da quella sensazione di ritrovato possesso.
<<Come hai
potuto? COME? Infame vigliacco!>>, gridò la dea in
lacrime. <<Non capisci nulla! Adone era bello, un tesoro di
rara bellezza e tu, schifoso distruttore, l’hai ucciso!
Perché, Ares? Perché? Perché l’hai fatto?>>
Il dio rise. Si
staccò dalla dea e calciò il cadavere di Adone sul fianco. <<Non
è forse più bello ora, con le interiora di fuori e i testicoli
squartati? O i tuoi amanti sono belli finché non sono sporchi di
sangue, mia dea?>>
<<Sei un
mostro!>> A pugni stretti Afrodite scaricò sul muscoloso petto
del dio tutta la sua disperazione. <<Non dovevi farlo! Perché?
Perché mi hai fatto questo?>>
Ares si lasciò
colpire, serio e immobile, e quando la dea si fermò sfinita la
strinse a sé. <<Il bell’Adone è morto. Piangilo quanto
vuoi, grida finché avrai voce ma poi torna da me. Ti voglio, lo sai
bene. E anche tu mi vuoi.>> Cercò di baciare Afrodite ma lei
si ritrasse.
Era imbronciata;
il viso umido e rosso di pianto, la bocca stretta in una smorfia
offesa al limite del comico.
Ares sorrise.
Sapeva che la sua stizza sarebbe durata poco. <<Amami, mia dea.
Solo tu e io siamo perfetti insieme. Ricorda queste parole.>>
Voglioso riprovò a baciare le labbra di Afrodite e lei lo rifiutò
ancora ma con meno fermezza, e morbida gli offrì il collo. Ares lo
baciò, stordito dal suo dolce profumo.
<<Ti amo,
mio spietato guerriero...>>, sussurrò lei cedendo al dio. Gli
occhi chiusi, i capelli color rame che scompigliati le cascavano
davanti al viso, le braccia strette alle spalle del dio. <<Ti
amo e ti desidero. Il tuo abbraccio è per me calore e brividi e
piacere. L’amore che provo per te è profondo quanto l’oceano e
so che anche tu mi ami, lo so, lo sento. Ma ora no, non mi cercare.
Il tuo gesto mi ha offesa, nauseata, e ti prego, non mi tentare.
Lasciami andare via, ora non voglio vederti!>>
Afrodite cercò di
liberarsi ma Ares, serio e scuro in volto, la tenne stretta. <<Non
l’odio ma la gelosia è l’altra faccia dell’amore. Gelosia,
rossa come il sangue di questo tuo misero amante mortale. Non essere
sciocca, dea. Sai bene che questo non è stato un affronto a te. Io
ti voglio bella e sorridente e tenera. E più di tutto, ti voglio
MIA.>>
Di nuovo Ares
tentò di baciare Afrodite e incapace di resistergli lei lo accettò.
Si baciarono con
passione sotto le fronde ombrose, stretti l’uno all’altra fino a
quando la dea si ritrasse. Non disse nulla: guardò il dio negli
occhi e in quello sguardo duro trovò amore e gelosia. Il solito
miscuglio di affetto, desiderio e violenza a cui non sapeva
resistere.
Si voltò; le
braccia conserte, la chioma che le dondolava sulla schiena. Senza
degnare di un’ultima occhiata il corpo massacrato di Adone che ora
giaceva sugli anemoni, si allontanò e Ares la seguì senza dire una
parola: sapeva che la sua rabbia sarebbe durata poco e che forse, già
quella stessa sera, lo avrebbe perdonato e invitato nel suo letto. E
così fu.
2 parole: RACCONTO STUPENDO!!
RispondiEliminawow
RispondiEliminaSplendido, semplicemente splendido
RispondiEliminaGrazie!
EliminaBellissimo!
RispondiEliminaGrazie!
EliminaDavvero ben scritto!
RispondiEliminaBellissimo
RispondiEliminaBellissimo
RispondiEliminaBellissimo, come tutti gli altri, intriso di umanità. Io non posso comprendere Afrodite, sono troppo orgogliosa ma so che esistono donne così, che possono amare uomini brutali e che riescono a non sentirsi offese dalla loro presenza e il tuo racconto mi aiuta ad accettarle senza giudicarle. Grazie, per aver mostrato così bene ciò che per è così incomprensibile.
RispondiEliminache bel commento, ti ringrazio tantissimo!
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