ATTENZIONE: il racconto contiene scene di sesso esplicito.
Non era la prima volta che i
celesti occhi d’acqua di Poseidone si posavano su una fanciulla, mossi dalla
bramosia d’amore. Molte erano state le ninfe e le mortali che aveva amato prima
di allora, e nessuna mai era riuscita a sfuggirgli: coloro che avevano tentato
erano state prese con la forza, sollevate fra le braccia come sacchi di semi e
possedute come prostitute.
Passionale e selvaggio con una
spiccata tendenza all’ira, il dio dei mari non conosceva pazienza né rinuncia e
quando le frecce di Eros lo colpivano, la bella amata, oggetto dei suoi
desideri, fosse essa vergine, moglie o persino dea, doveva essere sua.
La pace nel suo cuore lasciava il posto all’inquietudine, alla voglia feroce;
l’abbraccio della fanciulla gli donava serenità, il suo rifiuto lo infuriava e
con lui si infuriava il mare. Ed ecco che quella tempesta d’amore si faceva
schiuma, vortici, onde colossali, ricurve come artigli. Il mare graffiava se
stesso e si tormentava ma quando Poseidone, stretto alla sua amata, rilasciava
in lei il suo seme, la furia svaniva assieme al desiderio e le acque tornavano
placidi e silenti.
Era questo l’amore per il dio: un
miscuglio di sesso, prepotenza e passione violenta che lo portava a credere
ogni volta che l’amata non avrebbe osato oltraggiarlo con un rifiuto. No,
impossibile. L’avrebbe stretto a sé, baciato e amato come lui l’amava perché
era bellissima, incantevole, una creatura soave e irresistibile, incapace di possedere
in sé il germe della malignità e dell'egoismo.
Questo era ovviamente uno dei
tanti inganni di Eros, e Poseidone, con l’estinguersi e il riaccendersi della
passione capiva, imparava e ricadeva nei suoi stessi errori di continuo, come
tutti gli innamorati.
E quella volta non fu differente
dalle altre.
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La fanciulla si chiamava Medusa. Pelle di luna e una cascata di
riccioli neri come la notte a incorniciare un timido sorriso, Medusa sfoggiava
la bellezza semplice della gioventù e forse fu proprio quella beltà priva di
pretese a rapire il cuore di Poseidone.
Quando la vide la prima volta,
seduta in riva al mare in compagnia delle sorelle, il dio decise che avrebbe
dovuto averla e in pochi istanti la scintilla dell’amore si fece incendio.
Si impose di aspettare e al calar
del sole, quando le fanciulle lasciarono la spiaggia, Poseidone uscì dal mare
accompagnato dalle onde; i capelli turchini sciolti sulle spalle, la veste
bianca, il portamento solenne. Seguì le giovani che risalivano a piedi nudi la
collina; gli occhi azzurri fissi su Medusa che splendida e leggera come una
gatta percorreva il sentiero cinto dai rovi. Le sorelle ridevano, mano nella
mano, ignare di essere seguite. E quando nel buio della sera apparve il
colonnato esterno della polis, Poseidone si fermò.
Ardente di passione guardò
un’ultima volta Medusa, la sua bella schiena, i suoi capelli corvini, e la
lasciò andare.
Non era ancora il momento. Si
voltò e se ne andò.
La mattina seguente, dalle
profondità cobalto del mare, il dio risalì deciso a prendersi l’oggetto del suo
amore. In un turbinio di spuma e bolle sfrecciò verso il cielo e quando
squarciò la superficie dell’acqua si trasformò in una magnifica aquila marina
dalla testa bianca e possenti ali brune. Irriconoscibile, lasciò il mare e volò
in direzione della polis.
Non ci mise molto a trovare
Medusa: era all’uliveto, da sola, all’ombra delle fronde.
Fulminea, l’aquila si lanciò sulla
sua preda, in picchiata. Medusa non la vide arrivare e quando la percepì
addosso fu troppo tardi: le zampe dai lunghi artigli arcuati le ghermirono le
braccia e un battito d’ali la sollevò subito da terra. Sentì l’aria
scompigliarle i capelli, il corpo farsi leggero.
L’aquila prese il volo.
Terrorizzata, la ragazza gridò con
quanta voce aveva in corpo e d’istinto si aggrappò con entrambe le mani alla cosa
che la teneva per le braccia: non capì cosa fosse, sentì solo che era dura e
ruvida. Il vento freddo le si schiantò addosso, le scombinò la tunica. Medusa
vide gli ulivi farsi sempre più piccoli: i campi di orzo, il colonnato della
polis, il ruscello oltre le mura, ora sottile come un capello. Cercò di
sollevare la testa per vedere cosa la stesse tenendo stretta ma non vi
riuscì: l’aria che le schiaffeggiava il viso e le tirava i capelli le rendeva
impossibile tenere gli occhi aperti.
Paralizzata dalla paura, Medusa
esaurì in pochi istanti le proprie energie: la voce svanì, i muscoli si fecero
molli, il corpo perse sensibilità. Il panico, troppo intenso per una giovane
fanciulla, fu sul punto di farla svenire quand’ecco che lo stomaco, che
l’altitudine aveva reso simile a una bolla piena d’acqua, le mandò un segnale
inequivocabile: stavano scendendo.
Medusa lottò contro quel principio
di mancamento e riuscì a recuperare il controllo di sé. Cercò di aprire gli
occhi e ci riuscì senza difficoltà: ora l’aria era morbida e calda, di nuovo
accogliente. L’emozione le restituì di colpo le energie, il viso riprese
colore, le forze tornarono a scaldarle i muscoli. Sollevò lo sguardo e vide l’aquila;
sfiorò con le dita le sue zampe, sentì gli artigli che come bracciali di ferro
le bloccavano le braccia. Terrorizzata si agitò nel vano tentativo di liberarsi
fino a quando un’ombra improvvisa la costrinse a guardare di nuovo in avanti.
Una colonna di marmo, immensa, le
apparve di fronte ed ella gridò e chiuse gli occhi, preparandosi allo schianto.
Ma l’aquila virò all’ultimo,
infilandosi oltre al colonnato.
Tremante, Medusa si guardò intorno
e capì subito di essere all’interno di un tempio. Vide la statua di donna sul
fondo dell’edificio. Colossale come quelle che solitamente venivano dedicate a
Zeus, sfoggiava con fierezza un elmo e una lunga lancia acuminata: era Atena,
la dea della saggezza e della guerra nobile.
Quando fu vicina al pavimento
l’aquila mollò la presa e la fanciulla si accasciò. Con un ultimo battito d’ali
l’animale volò davanti all’altare in pietra e si fermò accanto alla statua
della dea.
Medusa, seduta a terra col cuore
che le pulsava nel petto e nelle tempie, la guardò e quando l’aquila distese le
ali e iniziò a cambiare sussultò sgomenta. Il piumaggio bruno si fece
tunica, la bianca testa mutò in viso d'uomo e capelli turchesi, le possenti ali
divennero braccia robuste che lente si incrociarono sul petto.
Il dio Poseidone si rivelò
all'amata in tutta la sua magnificenza. Il suo sguardo era duro, freddo come il
ghiaccio nonostante la passione che gli ardeva dentro.
<<Timida Medusa, figlia di
Forco e Ceto. Non tremare in quel modo>>, disse e la sua voce ferma
echeggiò nel tempio di Atena. Tese una mano verso la fanciulla. <<Sai chi
sono e sai cosa voglio. Il tuo bel volto mi turba, la chioma che lasci cadere
selvaggia sulle spalle è per me fonte di profondo incantamento e brama.
Avvicinati. Donati al dio del mare, la cui acqua brillante rapisce la tua
attenzione e i tuoi pensieri quando sola cammini sulla spiaggia. Fa’ di te un
dono per il tuo dio, non esitare. Stringi questa mano e rendilo felice.>>
Intimidita, Medusa fece un passo
indietro. Scosse la testa, distolse lo sguardo.
<<P-perdonatemi...>> mormorò. <<Lasciatemi andare, ve ne
prego.>>
Poseidone strinse gli occhi,
offeso. Ritirò la mano.
<<Perdonatemi!>>
Medusa si voltò e cercò di fuggire ma il dio, fulmineo, l’afferrò per un polso.
Una fitta di dolore improvviso la fece gridare.
<<DONATI A ME, FANCIULLA!
NON ESSERE SCIOCCA!>> gridò Poseidone rosso in viso. Con uno
strattone avvicinò Medusa a sé facendola schiantare sul suo possente petto.
<<Non oltraggiarmi in questo modo! Io ti voglio!>>
Stretta fra le forti braccia del
dio, Medusa si lasciò sopraffare dal panico.
<<No! Lasciatemi! No!>>
Come una giumenta imbizzarrita
cercò di divincolarsi e scappare, aizzando ancora di più la passione e l’ira di
Poseidone che voglioso le bloccò entrambi i polsi e la accompagnò giù, sul
pavimento, dove le fu subito sopra.