mercoledì 24 febbraio 2016

MEDUSA (Medusa e Poseidone)


  ATTENZIONE:   il racconto contiene scene di sesso esplicito.



Non era la prima volta che i celesti occhi d’acqua di Poseidone si posavano su una fanciulla, mossi dalla bramosia d’amore. Molte erano state le ninfe e le mortali che aveva amato prima di allora, e nessuna mai era riuscita a sfuggirgli: coloro che avevano tentato erano state prese con la forza, sollevate fra le braccia come sacchi di semi e possedute come prostitute.
Passionale e selvaggio con una spiccata tendenza all’ira, il dio dei mari non conosceva pazienza né rinuncia e quando le frecce di Eros lo colpivano, la bella amata, oggetto dei suoi desideri, fosse essa vergine, moglie o persino dea, doveva essere sua. La pace nel suo cuore lasciava il posto all’inquietudine, alla voglia feroce; l’abbraccio della fanciulla gli donava serenità, il suo rifiuto lo infuriava e con lui si infuriava il mare. Ed ecco che quella tempesta d’amore si faceva schiuma, vortici, onde colossali, ricurve come artigli. Il mare graffiava se stesso e si tormentava ma quando Poseidone, stretto alla sua amata, rilasciava in lei il suo seme, la furia svaniva assieme al desiderio e le acque tornavano placidi e silenti.
Era questo l’amore per il dio: un miscuglio di sesso, prepotenza e passione violenta che lo portava a credere ogni volta che l’amata non avrebbe osato oltraggiarlo con un rifiuto. No, impossibile. L’avrebbe stretto a sé, baciato e amato come lui l’amava perché era bellissima, incantevole, una creatura soave e irresistibile, incapace di possedere in sé il germe della malignità e dell'egoismo.
Questo era ovviamente uno dei tanti inganni di Eros, e Poseidone, con l’estinguersi e il riaccendersi della passione capiva, imparava e ricadeva nei suoi stessi errori di continuo, come tutti gli innamorati.
E quella volta non fu differente dalle altre.

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La fanciulla si chiamava Medusa. Pelle di luna e una cascata di riccioli neri come la notte a incorniciare un timido sorriso, Medusa sfoggiava la bellezza semplice della gioventù e forse fu proprio quella beltà priva di pretese a rapire il cuore di Poseidone.
Quando la vide la prima volta, seduta in riva al mare in compagnia delle sorelle, il dio decise che avrebbe dovuto averla e in pochi istanti la scintilla dell’amore si fece incendio.
Si impose di aspettare e al calar del sole, quando le fanciulle lasciarono la spiaggia, Poseidone uscì dal mare accompagnato dalle onde; i capelli turchini sciolti sulle spalle, la veste bianca, il portamento solenne. Seguì le giovani che risalivano a piedi nudi la collina; gli occhi azzurri fissi su Medusa che splendida e leggera come una gatta percorreva il sentiero cinto dai rovi. Le sorelle ridevano, mano nella mano, ignare di essere seguite. E quando nel buio della sera apparve il colonnato esterno della polis, Poseidone si fermò.
Ardente di passione guardò un’ultima volta Medusa, la sua bella schiena, i suoi capelli corvini, e la lasciò andare.
Non era ancora il momento. Si voltò e se ne andò.
La mattina seguente, dalle profondità cobalto del mare, il dio risalì deciso a prendersi l’oggetto del suo amore. In un turbinio di spuma e bolle sfrecciò verso il cielo e quando squarciò la superficie dell’acqua si trasformò in una magnifica aquila marina dalla testa bianca e possenti ali brune. Irriconoscibile, lasciò il mare e volò in direzione della polis.
Non ci mise molto a trovare Medusa: era all’uliveto, da sola, all’ombra delle fronde.
Fulminea, l’aquila si lanciò sulla sua preda, in picchiata. Medusa non la vide arrivare e quando la percepì addosso fu troppo tardi: le zampe dai lunghi artigli arcuati le ghermirono le braccia e un battito d’ali la sollevò subito da terra. Sentì l’aria scompigliarle i capelli, il corpo farsi leggero.
L’aquila prese il volo.
Terrorizzata, la ragazza gridò con quanta voce aveva in corpo e d’istinto si aggrappò con entrambe le mani alla cosa che la teneva per le braccia: non capì cosa fosse, sentì solo che era dura e ruvida. Il vento freddo le si schiantò addosso, le scombinò la tunica. Medusa vide gli ulivi farsi sempre più piccoli: i campi di orzo, il colonnato della polis, il ruscello oltre le mura, ora sottile come un capello. Cercò di sollevare la testa per vedere cosa la stesse tenendo stretta ma non vi riuscì: l’aria che le schiaffeggiava il viso e le tirava i capelli le rendeva impossibile tenere gli occhi aperti.
Paralizzata dalla paura, Medusa esaurì in pochi istanti le proprie energie: la voce svanì, i muscoli si fecero molli, il corpo perse sensibilità. Il panico, troppo intenso per una giovane fanciulla, fu sul punto di farla svenire quand’ecco che lo stomaco, che l’altitudine aveva reso simile a una bolla piena d’acqua, le mandò un segnale inequivocabile: stavano scendendo.
Medusa lottò contro quel principio di mancamento e riuscì a recuperare il controllo di sé. Cercò di aprire gli occhi e ci riuscì senza difficoltà: ora l’aria era morbida e calda, di nuovo accogliente. L’emozione le restituì di colpo le energie, il viso riprese colore, le forze tornarono a scaldarle i muscoli. Sollevò lo sguardo e vide l’aquila; sfiorò con le dita le sue zampe, sentì gli artigli che come bracciali di ferro le bloccavano le braccia. Terrorizzata si agitò nel vano tentativo di liberarsi fino a quando un’ombra improvvisa la costrinse a guardare di nuovo in avanti.
Una colonna di marmo, immensa, le apparve di fronte ed ella gridò e chiuse gli occhi, preparandosi allo schianto.
Ma l’aquila virò all’ultimo, infilandosi oltre al colonnato.
Tremante, Medusa si guardò intorno e capì subito di essere all’interno di un tempio. Vide la statua di donna sul fondo dell’edificio. Colossale come quelle che solitamente venivano dedicate a Zeus, sfoggiava con fierezza un elmo e una lunga lancia acuminata: era Atena, la dea della saggezza e della guerra nobile.
Quando fu vicina al pavimento l’aquila mollò la presa e la fanciulla si accasciò. Con un ultimo battito d’ali l’animale volò davanti all’altare in pietra e si fermò accanto alla statua della dea.
Medusa, seduta a terra col cuore che le pulsava nel petto e nelle tempie, la guardò e quando l’aquila distese le ali e iniziò a cambiare sussultò sgomenta. Il piumaggio bruno si fece tunica, la bianca testa mutò in viso d'uomo e capelli turchesi, le possenti ali divennero braccia robuste che lente si incrociarono sul petto.
Il dio Poseidone si rivelò all'amata in tutta la sua magnificenza. Il suo sguardo era duro, freddo come il ghiaccio nonostante la passione che gli ardeva dentro.
<<Timida Medusa, figlia di Forco e Ceto. Non tremare in quel modo>>, disse e la sua voce ferma echeggiò nel tempio di Atena. Tese una mano verso la fanciulla. <<Sai chi sono e sai cosa voglio. Il tuo bel volto mi turba, la chioma che lasci cadere selvaggia sulle spalle è per me fonte di profondo incantamento e brama. Avvicinati. Donati al dio del mare, la cui acqua brillante rapisce la tua attenzione e i tuoi pensieri quando sola cammini sulla spiaggia. Fa’ di te un dono per il tuo dio, non esitare. Stringi questa mano e rendilo felice.>>
Intimidita, Medusa fece un passo indietro. Scosse la testa, distolse lo sguardo. <<P-perdonatemi...>> mormorò. <<Lasciatemi andare, ve ne prego.>>
Poseidone strinse gli occhi, offeso. Ritirò la mano.
<<Perdonatemi!>> Medusa si voltò e cercò di fuggire ma il dio, fulmineo, l’afferrò per un polso. Una fitta di dolore improvviso la fece gridare.
<<DONATI A ME, FANCIULLA! NON ESSERE SCIOCCA!>> gridò Poseidone rosso in viso. Con uno strattone avvicinò Medusa a sé facendola schiantare sul suo possente petto. <<Non oltraggiarmi in questo modo! Io ti voglio!>>
Stretta fra le forti braccia del dio, Medusa si lasciò sopraffare dal panico.
<<No! Lasciatemi! No!>>
Come una giumenta imbizzarrita cercò di divincolarsi e scappare, aizzando ancora di più la passione e l’ira di Poseidone che voglioso le bloccò entrambi i polsi e la accompagnò giù, sul pavimento, dove le fu subito sopra.

lunedì 15 febbraio 2016

IL CASTIGO DEL CACCIATORE - (Artemide e Atteone)

ATTENZIONE:   il racconto contiene scene di violenza e allusioni sessuali.



  La valle della Gargafia coi suoi cipressi, i faggi e i pini dal fusto sottile era una morbida conca fra le colline a est di Platea, nel cuore della Grecia. Una selva ai più sconosciuta, nella quale si poteva trascorrere il pomeriggio o tutta la vita, a cacciare cerbiatti, stanare cinghiali o anche solo ad ammirare i raggi del sole che a fatica bucavano la tela di rami e foglie che fitta oscurava il cielo.
E in quell'incantevole porzione di mondo abbellita da ruscelli d’acqua pura, grotte umide e castagni dalla corteccia profumata, la dea Artemide, sudata e stanca a causa di quella preda che ancora non si faceva vedere, decise di concedersi un bagno in compagnia delle sue ancelle.
Raggiunse uno specchio d'acqua incorniciato dai faggi e ne ammirò la superficie: l'acqua era fresca e pulita. Depose l'arco d'oro e le frecce e si sfilò piano la veste. Le graziose ninfe la imitarono, ridendo briose.
Il sole illuminò quei corpi d'avorio; la sua luce scivolò come un velo sui seni nudi e sui fianchi, scaldandoli.
Artemide si sciolse i capelli ed entrò in acqua per prima.
<<Non è fredda>>, disse e le ancelle si avvicinarono, ancora un po' titubanti. Con le mani a coppa la dea raccolse l'acqua e per gioco la lanciò alla fanciulla nuda alla sua sinistra.
<<Ah!>>, gridò ella proteggendosi come meglio poté. Si chiamava Anthia: era giovane e bella, con grandi occhi azzurri e capelli color grano. Sorrise e rispose allo schizzo, con fare battagliero.
Artemide rise e fra lei e le ninfe scoppiò una vivace guerra d'acqua. Si bagnarono, risero, si spinsero l'un l'altra nel tentativo di trascinarsi per gioco dove l'acqua era più profonda e infine si calmarono. Qualcuna andò a sedersi a riva, qualcun'altra stese sui rami dei faggi una veste che si era inzuppata per sbaglio, qualcun'altra ancora si rilassò accarezzando con la mano umida la schiena di una compagna.
Sotto il sole della Gargafia, Artemide e le sue fanciulle si rinfrescarono con grande piacere.

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Vigile e attento come il più esperto dei cacciatori, il principe Atteone scivolò nelle verdi profondità della selva, veloce come un soffio di vento. La fronte aggrottata, l’arco fra le mani; saltò arbusti, penetrò tra le foglie, si graffiò il volto ma non si fermò. Stava cercando il cinghiale: quello era l'obiettivo, il trofeo della giornata, ed egli era deciso a non lasciarselo scappare.
Era un abile cacciatore, uno dei migliori: allievo del centauro Chirone aveva appreso da lui l’antica arte della caccia e di quei preziosi insegnamenti aveva fatto tesoro al punto che ormai erano ben poche le prede in grado di sfuggirgli.
Si portò il pollice e l’indice alla bocca. Fischiò. Gli ultimi tre cani della muta, una cinquantina in totale, splendide creature dal corpo slanciato e muscoloso, recuperarono terreno. Erano rimasti indietro ma chiamati dal padrone sfracciarono subito tra gli arbusti, sollevando grosse zolle di terra nella frenesia della corsa.
Atteone fece loro un cenno: avanti, avanti!, e il branco si unì correndo compatto dietro alla preda. Si udirono gli ultimi fruscii sulle foglie ed ecco che gli abbai sfumarono, si fecero lontani. I cani arrivano sempre prima del cacciatore, si sa.
Atteone sorrise, accelerò il passo e… si fermò.
Voci.
Risate di donne. Acqua che schiocca.
Cos’è?
Il principe tese l’orecchio e volse il bel viso verso ovest. Ebbe un'intuizione e un sorriso deliziato gli illuminò il volto. I cani erano scomparsi, il cinghiale dimenticato: la curiosità e quelle dolci voci lo spinsero ad abbandonare il cammino ed egli si lasciò guidare da esse. Si tuffò nella selva proteggendosi gli occhi: i rami gli graffiarono le braccia, le foglie gli solleticarono la fronte. Spinto dalla curiosità Atteone fu sul punto di cadere, tradito da una radice sporgente, ma si sostenne a una quercia e proseguì, più veloce di prima. Sfilò tra castagni e betulle, attraversò a passo svelto un boschetto di alti faggi e finalmente le vide.
Là, davanti a sé.
Bellissime fanciulle.
Tremendamente vicine, a pochi passi di distanza.
Atteone si bloccò sgomento e si appiattì dietro al tronco di un grande faggio. Il cuore gli batteva forte, come impazzito: non si era aspettato di trovarle così vicine, a pochi metri da sé. Immobile, i palmi delle mani incollati alla corteccia, il principe sollevò lo sguardo.
Due delle fanciulle sedevano a terra, sull'erba calda del pomeriggio: una era intenta ad acconciare i capelli all'altra e di tanto in tanto le baciava il collo.
Erano tutte nude e belle. Si chinavano sullo specchio d'acqua a inumidirsi le mani e le guance con la disinvoltura di chi non sa di essere scrutato da occhi indiscreti; i glutei tondi, le cosce morbide, i capelli lunghi e boccolosi…
Atteone, stregato dallo splendore di quella visione, pensò che avrebbe potuto stare tutta la vita ad ammirare quelle bellezze.
E quei baci...
Si baciavano spesso quelle fanciulle: sulle labbra, sulle spalle, sul seno…
Atteone vede le due sedute davanti a sé scambiarsi un bacio con la lingua e sorridersi, e una fitta dal significato inconfondibile lo colpì sotto la cintura. Sentì le guance avvampare, il respiro farsi più pesante.

venerdì 5 febbraio 2016

GELOSIA - (Afrodite, Adone e Ares)

   Attenzione: il racconto contiene scene di violenza.


Monte Libano.
Un tempio a cielo aperto dalle colonne di corteccia e l’aria che profuma di rugiada, esplosione di verdi aceri, ginepri e querce dalla chioma possente sotto la quale trovare riparo durante le ore di massima calura. E proprio là, sotto a una di quelle querce ombrose, la dea Afrodite sollevò la sua bianca veste dalle rifiniture d’oro e si sedé. L’erba era morbida come un tappeto, fresca quanto la brezza che solleticava le foglie e le ghiande sui rami. Afrodite, lunghi capelli ramati e occhi blu oceano splendidi come gemme, era raggiante: le labbra distese in un tenue sorriso, lo sguardo rivolto al bell’Adone, suo amante. Era innamorata e l’amore la rendeva più incantevole che mai.
E anche il giovane Adone, figlio di re Cinira, sfoggiava una bellezza senza eguali. Riccioli bruni, occhi dolci e profondi, corpo da atleta; il ragazzo era un mortale come tanti ma il suo fascino era divino e la dea ne era stata conquistata fin dal primo istante in cui i loro sguardi si erano incontrati.
Adone si avvicinò ad Afrodite; la muta di levrieri alle spalle, il capriolo trascinato per i palchi con la freccia ancora conficcata nel collo. Il giovane era un grande cacciatore e non ci aveva messo molto ad impadronirsi di quella preda, caduta sotto agli occhi ammirati della dea che da giorni lo accompagnava nei boschi per le battute di caccia.
Lasciò il capriolo e si sedette sotto la quercia accanto ad Afrodite.
<<Desidero un cervo. Un semplice capriolo non è degno di Voi.>>, disse. La voce era bassa e stanca ma gli occhi brillavano di passione. <<Ne catturerò uno prima del tramonto.>>
Afrodite sorrise. Con delicatezza spostò una ciocca dalla fronte sudata del giovane. <<Mio bell’Adone, non ti angustiare. Non ne hai motivo. Dimentica il cervo e riposa. Sei affaticato, lascia che le mie carezze ti donino sollievo.>>
<<Siete tanto dolce e bella...>>, replicò il ragazzo mentre la dea gli accarezzava il collo. <<La Vostra bellezza delizia i miei sensi. È profumo di fiordaliso, vino d’uva pregiata, la prima mela che placa la fame… è un piacere che non mi stanca mai.>>
<<Anche la tua bellezza è per me fonte di piacere, meraviglioso amante mio...>>, disse Afrodite poggiando il capo sulla spalla del giovane. <<Ammirarti mi dà gioia, il tuo bel volto è per me luce e ispirazione e orgoglio perciò lascia che io goda di te, perché questo e solo questo mi offre appagamento...>>
Alle parole della dea seguì il silenzio.
Adone, rilassato, socchiuse gli occhi e si lasciò stordire da quelle lievi carezze al petto, senza dire più nulla. E Afrodite, profondamente affascinata da quel bel viso dai tratti delicati che avrebbe potuto superare in bellezza persino il divino Apollo, pensò che mai e poi mai avrebbe ceduto quel ragazzo ad un’altra, dea o mortale che fosse.
Perché vi era davvero un’altra.
Un’altra che, come lei, desiderava l’avvenente Adone tutto per sé perché di lui si era perdutamente innamorata.
Il suo nome era Persefone. 
Anche lei, moglie di Ade, dio degli Inferi, era attratta dal giovane e per lui aveva apertamente sfidato Afrodite senza timore alcuno, e per risolvere la disputa era stato necessario l’intervento della saggia musa Calliope, che aveva deciso di offrire Adone a entrambe le contendenti per uguale periodo di tempo. Il giovane avrebbe quindi passato quattro mesi dell’anno con Afrodite, quattro mesi con Persefone e i restanti quattro con una persona di sua scelta; così aveva deciso la musa. Ma quella sentenza aveva lasciato insoddisfatta Afrodite, che aveva così deciso di rubare a Persefone il tempo a cui aveva diritto e tenersi Adone solamente per sé, sempre. Non l’avrebbe lasciato: era suo e suo soltanto e nessuno glielo avrebbe portato via.
<<Voglio un tuo bacio, Adone...>>, sussurrò la dea. <<Baciami ancora e ancora. Dimmi che sono bellissima e che nulla, in cielo, in terra e in mare è meraviglioso quanto noi due insieme...>>
<<Il vostro divino corpo è eleganza e incanto e splendore. Bellissima, Voi, mia Afrodite, che ingenuamente sperate che qualche parola sussurrata da questo insignificante mortale sia in grado di descrivere la Vostra accecante beltà. Ciò che dico è poco, conta meno del capriolo steso ai nostri piedi. Vorrei appagarvi, offrirvi di più e di meglio ma le parole e i miseri doni sono nulla di fronte a Voi, credetemi. Perciò Vi prego, non chiedetemi parole né poesia né canti. La mia mediocrità Vi offenderebbe. Accettate le mie labbra in silenzio e unite la Vostra bellezza alla mia, e amatemi. Amatemi, mia Afrodite...>> Adone prese fra le mani il viso della dea e i due si baciarono a lungo all’ombra delle querce.

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Dai celesti cieli dell’Olimpo, Ares, oscuro dio della guerra e della violenza, vegliava con cuore furente su quell’amore. Dritto come un soldato pronto alla battaglia, l’elmo sul capo e i muscoli tesi, spiava la bella dea e il suo amante e ad ogni bacio e carezza i suoi occhi d’ambra si facevano più accesi. Il mantello rosso, la lancia stretta nel pugno, le labbra serrate in una smorfia di odio e gelosia.
Ares amava Afrodite e la sua passione era da tempo immemore ricambiata dalla dea, che coi suoi morbidi abbracci gli rendeva più dolce il ritorno sull’Olimpo dopo ogni battaglia. Erano uniti, per sempre stretti nella morsa di Eros, e sebbene ci fossero altre fanciulle ad allietare le sue notti di tanto in tanto, Ares sentiva di appartenere ad Afrodite e sapeva di avere il suo amore. Ed era pientamente consapevole che quelli della dea erano insulsi capricci d’amore, nulla più che frivolezze passeggere, ma vedere le mani di quel mortale correre indisturbate sul suo corpo, sulla sua adorata dea, lo faceva bruciare d’ira.
E mentre era là, immobile, a spiare le tenere effusioni dei due, la triste Persefone gli parlò dagli Inferi dove era costretta a regnare per sei mesi all’anno accanto al suo sposo.
Sussurrò all’orecchio del dio, gli fu vicina seppure lontana.
<<Povero Ares...>>, mormorò con un tono che era compatimento e scherno assieme.
Il dio fece una smorfia. Capì subito chi gli stava parlando e intuì cosa gli sarebbe stato detto di lì a poco. Si voltò di nuovo verso gli amanti.
<<Adone è bello...>>, continuò Persefone. <<Bello quanto il sole e la luna. Il suo corpo è perfetto, integro e puro come un giglio e con cotanto fascino non puoi competere, tu, dio del sangue e della mera brutalità. Il tuo viso è scuro, il tuo sguardo assetato di grida e rosse ferite. In te vivono la guerra, la distruzione, il furore. Non puoi competere con la sua bellezza.>>
Persefone lasciò che qualche secondo di silenzio marcasse le sue parole.
Era in cerca di vendetta: Afrodite aveva osato sfidarla e portarle via Adone non rispettando così il volere di Calliope e le avrebbe fatto pagare questo affronto. Trascinata negli Inferi con l’inganno, Persefone non tollerava più menzogne e tradimenti ed era decisa a manipolare il dio della guerra per vendicarsi della bella dea.
Rincarò la dose, più determinata che mai. <<Accetta la sconfitta, Ares. Su questo campo Adone ti batte. O stai davvero pensando di gareggiare tra i belli? Tu?>>
<<Non ti permetto di parlarmi in questo modo, donna!>>, ringhiò il dio adirato. <<Taci, che non sai nulla!>>
<<So quello che sanno e vedono tutti: Afrodite preferisce Adone a te. Ma non è mia intenzione infierire né tormentare le tue ferite d’orgoglio e ti chiedo perdono se le mie parole hanno accresciuto la tua rabbia. Esprimere la mia pena per te, questo era il mio unico desiderio. Addio, Ares.>>, disse Persefone e tacque.
Di nuovo solo con la propria gelosia, Ares sentì l'ira crescere e bruciargli nel petto. E più le mani di Adone scorrevano sulla pelle di Afrodite, più il battito del dio aumentava; i pugni tremanti, lo sguardo infuocato, il viso contratto in un ringhio da belva. La gelosia, così simile al furore che sempre lo spingeva a tuffarsi in battaglia, si impossessò di lui e lo dominò.
<<Bastardo d'un mortale...Ora vedrai.>>, ruggì fra i denti e si allontanò.