sabato 26 novembre 2016

IL PIACERE DELLA VENDETTA (Ade, Persefone, Teseo e Piritoo)

Attenzione: il racconto contiene scene di violenza




Lungo le nere sponde del fiume Stige, Ade passeggiava con cuore calmo, accompagnato dalla moglie Persefone. L'aria era umida, pesante. La volta del cielo, grigia e fosca, pareva fondersi con la terra, come se tra le due non vi fosse più alcuna distinzione e il mondo intero non fosse null'altro che una slavata imitazione di se stesso. Negli Inferi tutto perdeva la sua identità e la sua importanza, facendosi ombra tra le ombre, e persino lo straziante pianto dei defunti, traghettati da Caronte da una sponda all'altra dello Stige, smarriva la propria energia non appena le anime s'incamminavano nei meandri dell'Oltretomba, consce di non poter più tornare indietro, e di quel pianto non rimanevano che lamenti trascinati e gemiti privi di vita. E in mezzo a quell'angoscia fatta di lacrime e rimpianti, i due Signori degli Inferi passavano lenti, distaccati, senza lasciarsi influenzare da essa in alcun modo: a quel tetro spettacolo erano ormai entrambi abituati, nonostante lo sbarco delle ombre non riempisse i loro animi dei medesimi sentimenti.
Ade, a differenza della moglie, s'inorgogliva nel contemplare i suoi nuovi sudditi riversarsi a fiotti oltre lo Stige, e per loro, per ognuno di loro, provava un forte senso di possessione materiale. Erano suoi, finalmente suoi, dopo aver trascorso anni in superficie a ingraziarsi Zeus e gli altri Dei dell'Olimpo; a vivere vite insignificanti, gloriose, misere, emozionanti... vite dai mille colori, che ora avrebbero condizionato il loro futuro nel regno della morte. Ma che quelle anime novelle finissero con l’ardere di dolore nel Tartaro, che vagassero smarrite nella Prateria degli Asfodeli o che godessero della pace nei Campi Elisi, ad Ade non importava: gli bastava saperle sue, pronte a riconoscergli l'autorità che sapeva di meritare al pari dei suoi fratelli.
Persefone, invece, non guardava alle ombre con orgoglio, pur essendone la regina. Sfilava tra loro senza fissarne nessuna in particolare, mentre il suo sguardo coglieva l'ambiente nella sua interezza. Erano trascorsi tanti anni dal giorno in cui la terra si era squarciata sotto ai suoi piedi e Ade, a bordo di un cocchio scintillante trainato da cavalli neri come la notte, l'aveva afferrata trascinandola con sé giù negli Inferi, e da allora molte cose erano cambiate. Quel matrimonio, nato dalla forza e dall'inganno, col tempo aveva dissipato la mole di tristezza che le schiacciava il petto, e a sorpresa, come un frutto dalla buccia amara e il cuore sorprendentemente dolce, si era fatto gradevole, accogliente, caldo; un'unione salda e profonda, che era riuscita a farla sentire amata per davvero, e non solo desiderata. E così com'era cambiato il suo rapporto con Ade, era cambiata anche lei, cominciando a percepirsi regina degli Inferi e mettendo da parte la propria empatia nei confronti delle anime piangenti che brulicavano per tutto l'Oltretomba. Era stata costretta a farlo, a spogliare quelle ombre d'importanza e valore. Nessuno avrebbe potuto salvarle tutte, rovesciando l'ordine delle cose e scaraventando nel caos il regno dei viventi: quella era la triste realtà, e Persefone, pur conservando intatto il proprio animo misericordioso che tanto la rendeva amata dai mortali, l'aveva accettata, non potendo fare altrimenti.
Trascinandosi dietro l'oscurità ad ogni passo, il Dio si fece strada nella nebbia. Teneva la moglie a braccetto e di tanto in tanto la guardava, innamorato del suo giovane viso di donna. Bionda e bellissima, Persefone era come una rosa dai candidi petali, sbocciata dalla sterile terra infernale; un fiore prezioso, profumato, splendido, di cui Ade era gelosissimo e che non si sarebbe mai stancato di ammirare. Ma i loro occhi faticavano a incrociarsi. Lo sguardo di lei era fuggevole, concentrato sulle anime che dal traghetto di Caronte scendevano ad affollare la riva dello Stige. Qualcosa la turbava.
Ade posò la mano su quella della Dea, stretta al suo braccio. «Cosa c'è?» domandò, inclinando di poco il capo.
Persefone indicò le ombre tutt'intorno. «Guarda che affollamento. Non hai anche tu l'impressione che ultimamente il flusso di defunti si sia intensificato?»
«Infatti è così.» Il Dio annuì, accarezzando piano le dita della moglie. «Pare che i Messeni siano di nuovo in guerra con gli Spartani e che i soldati di entrambi gli eserciti stiano cadendo a terra uno dopo l'altro, come foglie dagli alberi. Non so chi la spunterà, ma so per certo che lassù Ares si sta dando da fare.»
«Guerra.» Persefone parlò con tono di biasimo, rivolgendosi a se stessa. «Ma certo, avrei dovuto immaginarlo...»
«Ma no, mia cara.» Ade si fermò, offrendo alla Dea uno dei suoi lievissimi sorrisi, tra la dolcezza e la malinconia. «Il numero di nuove ombre può aumentare per le ragioni più svariate e imprevedibili. Le epidemie, per esempio, a parità di tempo possono offrirci molti più sudditi rispetto a una guerra e...»
«Mio Signore!» Una voce maschile, smorzata dall'affanno, colse alle spalle i due sovrani, facendoli sussultare. «Finalmente vi ho trovato!»
Marito e moglie si voltarono e un uomo alto e pallido, dagli occhi sporgenti e il viso scavato, si arrestò di fronte a loro, tutto trafelato: era uno dei servitori personali del Dio, uno dei più fedeli.
«Che succede?» domandò Ade, sulle spine. Non ricordava quand'era stata l'ultima volta che aveva visto uno dei domestici correre da lui in quel modo, e con quell'agitazione in corpo.
«Due uomini!» ansimò il servitore. «Due viventi!»
Nell'udire quelle parole lo sguardo di entrambi i coniugi si accese.
«Sono entrati a palazzo e pretendono un'udienza. Dicono che è molto importante.»
«Chi sono?» chiese Ade.
«Teseo di Atene, e Piritoo, principe dei Lapiti. Si sono annunciati così.»
Il Dio tacque qualche secondo, frugando nei propri ricordi. Legato com'era al regno degli Inferi gli capitava molto raramente di risalire in superficie, ed era attraverso i resoconti degli altri Dei, in particolare quelli di Hermes il Messaggero, che entrava in contatto con quel mondo, scoprendone vicende e personaggi degni di nota. «Teseo di Atene» ripeté, annuendo. «Eroico principe, figlio di Egeo. Sì, il suo nome è giunto alle mie orecchie. Questo Piritoo invece non lo conosco.» Ade guardò la moglie che, a differenza sua, trascorreva metà dell'anno nel regno dei viventi. «Tu, mia cara, l'hai forse sentito nominare?»
Persefone scosse la testa. «Non mi sembra. Però posso immaginare per quale ragione entrambi siano discesi negli Inferi...»
«La ragione è sempre la stessa.» Ade annuì, condividendo il pensiero della sua regina che, come lui, era pronta a ricevere le suppliche dei due visitatori affinché uno dei loro cari potesse lasciare l'Oltretomba e tornare in superficie. Dopotutto era già capitato in passato e, considerato l'ardore che scuoteva i cuori di certi mortali, probabilmente sarebbe capitato ancora. Ma stavolta c'era qualcosa di diverso, d’insolito, a giudicare dal panico che aveva preso il sopravvento sul povero servitore. E Ade, pur non avendo ancora visto i volti dei due uomini che con immensa boria pretendevano un'udienza privata come se questa gli fosse dovuta, era già maldisposto nei loro confronti e impaziente di cacciarli dal suo regno. «Andiamo» disse, cingendo con un braccio il fianco della moglie, e con lei fece per incamminarsi in direzione del palazzo. «Il dovere chiama.»
«Mio Signore…»
Ade lanciò un'ultima occhiata al servo.
«Vi stanno attendendo a spada sguainata...»
Persefone sussultò, colpita da quelle parole, ma il Dio degli Inferi non batté ciglio. «Mi dispiace per loro» rispose, e con la moglie si avviò verso casa, lasciandosi alle spalle il fiume Stige.

domenica 16 ottobre 2016

IL POMO DELLA DISCORDIA - PARTE II

ATTENZIONE: il racconto contiene scene di nudo e allusioni sessuali



   Benché vantasse un viso dai tratti nobili e aggraziati, che in certi contesti pareva quasi smascherare le sue origini regali, il giovane Paride non sapeva di essere un principe, né era a conoscenza delle incredibili vicissitudini che l'avevano condotto sul Monte Ida quand'era ancora in fasce, e non vi era di che stupirsi. 
    Come avrebbe potuto sapere che suo padre Priamo aveva progettato di ucciderlo, terrorizzato da una profezia che vedeva proprio in quel suo figliolo appena nato il responsabile della futura distruzione di Troia? Come avrebbe potuto sapere che Agelao, lo stesso uomo che con tanto affetto lo aveva cresciuto tra i boschi dell'Ida, invece di portare a compimento quell'orribile delitto impostogli dall'alto aveva scelto di disobbedire, salvandogli così la vita e mettendo a rischio la propria? Come avrebbe potuto sapere ciò che il destino gli aveva celato fino ad allora, incastrandolo in un'esistenza piatta e noiosa che non era la sua?
Ignorava persino di chiamarsi Paride. Agelao, per celare la sua identità e offrirgli una vita il più sicura possibile, gli aveva cambiato il nome in Alessandro, “il difensore di uomini”, ma era questione di poco prima che il Fato gli si schiantasse addosso, rivelandogli la verità e rendendo memorabile per anni a venire quell’assolata mattina che, ai suoi occhi ignari, si presentò identica a tutte le altre.
Alzatosi all'alba, al primo canto del gallo, il ragazzo aveva condotto le pecore sui pascoli del Monte Gargaro, la vetta più alta dell'Ida, e là, seduto su di masso, controllava pigramente che le bestie non si allontanassero troppo l'una dall'altra cacciandosi nei guai.
La brezza mattutina soffiava lieve tra le fronde; il cinguettio delle allodole, appollaiate sui rami, rallegrava l'aria, mescolandosi al liquido sciacquio dei ruscelli che dalle sorgenti del monte scorrevano a fondovalle, a rifornire d’acqua limpida i villaggi. E mentre Paride era impegnato ad annoiarsi, riuniti sulla cima dell'Olimpo gli Dei lo osservavano senza mai staccargli gli occhi di dosso, neppure per un istante. A breve, Hermes e le tre Dee si sarebbero presentati al suo cospetto, spingendolo ad accettare lo sgradevole ruolo di giudice in quella gara di bellezza, e tutti si chiedevano come il giovane avrebbe reagito nel trovarsi davanti non una, ma ben quattro creature celestiali, e a chi mai avrebbe scelto di offrire il tanto ambito pomo d'oro.
«Povero fanciullo» esordì con tono materno Demetra, una delle poche divinità a mostrare empatia nei confronti del mortale. «Per quanto possa decidere con saggezza, nulla lo salverà dall'ira delle due Dee perdenti.»
«Se è furbo darà la mela a Era» affermò Zeus, che come tutti conosceva bene l'animo follemente vendicativo della consorte, capace delle peggiori nefandezze pur di difendere il proprio onore. «Ma se è onesto solo la metà di quanto io credo che sia, allora non potrà fare a meno di inchinarsi di fronte alla magnificenza di Afrodite.»
Poseidone prese a lisciarsi con una mano la barba azzurrina, pensieroso. «Spero vivamente che ciò avvenga. È lei la più bella, la più sensuale, ma se anche il ragazzo si lasciasse intontire dall'innegabile eleganza di tua moglie, io mi reputerei ugualmente soddisfatto. Ciò che mi preme è che Atena non ne esca vincitrice.» Nel riportare a galla vecchi ricordi di dispute e scontri avuti con la Dea, il Dio del Mare indurì lo sguardo. «Non merita quel pomo e sarebbe una pazzia darglielo.»
«Suvvia, fratello, ora non esagerare!» replicò Zeus, infastidito nel sentir parlare in quel modo della sua figlia prediletta. «Atena è tanto graziosa quanto intelligente, e con le sue doti è in grado d’ammaliare il figlio di Priamo e conquistare onestamente il trofeo. Non macchiarti d’ingenuità dando per scontata la sua sconfitta.»
«Ogni poro del suo corpo sprizza superbia e le sue forme non sono prosperose a sufficienza da compensare quell'aura di altezzosità che tanto me la rende odiosa. Come pensi che potrà mai conquistare Paride, o qualsiasi altro uomo, una Dea così dominante nell'atteggiamento?»
«Io mi limito a osservare ciò che accadrà, confidando nelle capacità di discernimento del mortale e affidandomi al suo giudizio, così come dovresti fare tu.»
«Non dirmi ciò che devo fare! Sai che non lo tollero!»
«Allora taci, che i tuoi sgradevoli commenti mi stanno innervosendo!»
«Via, via, non litigate!» esclamò Dioniso con un largo sorriso, offrendo a entrambi i fratelli due coppe di vino rosso, colme fino all'orlo. «È solo una sciocca competizione tra femmine, non c'è motivo di prenderla a male!»
«Sciocco è chi considera sciocca questa disputa» replicò Apollo scoccando un’occhiata stizzita in direzione del Dio del Vino, di quelle che si rivolgono agli stupidi senza speranza. «In qualsiasi modo essa si concluda, porterà malumore e inevitabili vendette.»
«Non essere così negativo, fratello mio! E se le Dee perdenti reagissero mostrando rispetto e maturità? Non lo si può escludere a priori...»
«Non ho mai udito nulla di più stupido, eppure ormai dovrei essere abituato alle tue idiozie!» Apollo arricciò gli angoli della bocca in un sorriso sarcastico, poi tornò serio. «No, non pensarci nemmeno. Secondo me, le perdenti si infurieranno come bestie!»
«È vero, ha ragione Apollo. La prenderanno a male!» esclamò qualcuno dal fondo.
«No, secondo me ha ragione Dioniso» gli rispose qualcun altro. «Dopotutto si tratta solo di una stupida mela. Perché prendersela tanto a cuore?»
«Parli come se non conoscessi le donne e ciò di cui sono capaci!»
«Il punto non è il pomo di per sé, ma ciò che rappresenta!»
«Non dico che Era e Atena non se la prenderanno! Dico solo che mi è arduo credere che siano capaci di vendicarsi per così poco.»
«E chi ti dice che saranno loro le sconfitte?»
«Ma ha ragione, la vittoria di Afrodite è scontata! Che senso ha negarlo?»
«Vincerà Era, ve lo dico io.»
«No, vincerà Atena! Paride si lascerà stregare dal suo portamento fiero e dalle sue belle parole, e le offrirà il pomo!»

domenica 25 settembre 2016

IL POMO DELLA DISCORDIA - PARTE I





Un tripudio di colori, profumi e canti animava i verdi boschi del Monte Pelio, in festa per l’unione più attesa e chiacchierata del secolo: il matrimonio tra la nereide Teti e il mortale Peleo, celebrato al cospetto di Zeus e di tutti gli Dei maggiori, discesi dall'Olimpo per presenziare al lieto evento e offrire agli sposi i propri doni e la propria benedizione.
Il simposio si svolse davanti alla grotta del centauro Chirone, nascosta nei meandri della montagna, e attorno alla più grande delle tavole imbandite per l’occasione, luccicante di piatti e coppe d’oro, gli Dei si godevano il banchetto, seduti su dodici troni tempestati di diamanti. Calici alla mano, sorseggiavano vino e nettare, mentre tutt’attorno regnava l’euforia. I centauri, compagni di Chirone, scalpitavano festosi e già un po’ ebbri; le Muse, riunite a cerchio, intonavano canti melodici accompagnate dalla lira del talentuoso Orfeo, conquistandosi occhiate di ammirazione da parte di Apollo, seduto al tavolo degli Olimpi accanto alla sorella Artemide; Ebe la Coppiera girava senza sosta tra gli invitati, riempiendo loro le coppe e sorridendo con cortesia, mentre Pan soffiava energicamente nella zampogna, inquinando con le sue note stonate la perfezione della lira di Orfeo e infiammando di divertimento gli animi delle Menadi, seguaci di Dioniso, che ubriache giacevano sul prato a ridere l’una dell’altra con le tuniche macchiate di vino.
L’allegria era alle stelle, gli animi deliziati dal calore dei festeggiamenti.
E tra una coppa di nettare e l’altra, quando l’attenzione di tutti pareva spostarsi altrove, tra gli Dei volavano sguardi eloquenti, che nella loro immediatezza rivelavano conflitti irrisolti, sentimenti di stima mai confidata e amori segreti.
Un osservatore attento li avrebbe colti tutti, a cominciare dalle occhiate perentorie che l’elegante Era, Signora degli Dei, lanciava al marito ogni qualvolta i suoi occhi si soffermavano con troppa insistenza su una delle donne con cui in passato aveva condiviso il letto.
Per la Dea non era affatto facile godere appieno di quei rari momenti di unione familiare, perché tante, troppe, erano le ex amanti di Zeus che vi prendevano parte e che puntualmente si presentavano a testa alta accompagnate dai figli avuti insieme a lui: la bella Maia, che per figlio vantava Hermes, il Messaggero; la sorella Demetra, che gli aveva dato Persefone; la titanide Mnemosine, con cui aveva generato le Muse; la pleiade Elettra, dal cui ventre era nato Dardano, progenitore di Troia...
Ormai non vi era più alcuna traccia di passione a unire Zeus e quelle donne, ma Era, visceralmente corrosa dalla gelosia e dal sospetto, naturali conseguenze di millenni di infedeltà e menzogne, non poteva fare a meno di folgorarlo con lo sguardo non appena lo scopriva a sorridere loro, sebbene quelli del consorte fossero sorrisi rilassati, del tutto privi di malizia.
Era più forte di lei, un bruciore che non poteva contenere in alcun modo, neppure sforzandosi.
E quando Zeus incrociava il suo sguardo duro e notava quella particolare smorfia di indignazione che le increspava le labbra, un moto di nervosismo gli faceva puntualmente mutare espressione, spingendolo a provare fastidio e compassione al tempo stesso nei confronti di quella moglie tanto fedele quanto oppressiva. Ma pur di non infilarsi in situazioni sgradevoli, il Dio la accontentava, perdendosi in futili chiacchiere ora con suo fratello Poseidone, ora con Dioniso, ora con lei, e seppur per qualche minuto tutto pareva acquietarsi, fino al momento in cui una delle donne incriminate non si intrometteva nel discorso, riconquistando la sua attenzione e, insieme ad essa, anche l'astio di Era.
Ma nessuno dei presenti a quel simposio era tanto abile a comunicare con lo sguardo quanto Ares, Signore della Guerra e del Sangue.
Il Dio sedeva a fianco della madre Era, vicino alla coppia di sposi. Fiero sul suo trono indossava un'armatura di bronzo lucido dalle cui spalle pendeva un mantello rosso, che gli conferiva un aspetto autorevole e, per certi versi, minaccioso. Un elmo bronzeo, dalla superficie intarsiata e dal lungo pennacchio nero in crine di cavallo, gli scintillava sulla fronte, calando un velo d'ombra sui suoi occhi ambrati, che ciononostante continuavano a brillare, accesi di desiderio.
Si portò la coppa alle labbra e prese un sorso di vino, senza mai staccare lo sguardo dall'oggetto del suo amore.
Lei.
Afrodite.
Signora della Bellezza e dell'Amore.

sabato 11 giugno 2016

LA SPOSA DI DIONISO (Dioniso e Arianna)




Sopra l'isola di Nasso, verde gioiello nel cuore del Mediterraneo, le nuvole scorrevano lente nel cielo del pomeriggio, sfiorando col loro tocco ombroso ogni dettaglio di quella natura incontaminata: le coste rocciose del nord, a picco sul mare; le colline ricche d'acqua che dall'interno sfumavano ad ovest in vaste pianure; le spiagge di sabbia color avorio, fini e soffici come farina. E gli ulivi, i cedri, i faraglioni, le cave di marmo, i sentieri battuti dalle bestie selvatiche... Su ogni zona dell'isola di tanto in tanto calava un velo d'ombra che ne spegneva i colori, ma pochi minuti dopo le nubi spinte dal vento proseguivano il proprio cammino lasciando che la luce del sole tornasse a baciare la terra, e tutto si faceva di nuovo splendido, caldo, intenso.
Era una di quelle placide giornate in cui è gradevole sdraiarsi sull'erba a interpretare la forma delle nuvole; in cui quasi si avverte il bisogno di abbandonare ogni attività e concedersi il lusso di perdere un po' di tempo all'aria aperta, senza pensare più a nulla.
Ma a Nasso a godere del calore del primo pomeriggio furono solo le lucertole, uscite dai propri nascondigli tra le pietre per scaldarsi e rinvigorirsi, e nessuna voce d'uomo né risata di bambino si intromise in quel particolare sottofondo fatto di canti di cicale, sciabordio d'onde sul bagnasciuga e richiami di gabbiani.
L'isola era completamente deserta.
Una perla di rara bellezza che nessun mortale mosso da ambizione aveva ancora reclamato come suo possedimento, e che proprio per questo vantava il fascino tipico delle terre vergini e selvagge.
Eppure a Nasso qualcuno c'era: una presenza discreta e silenziosa, quasi impercettibile alla vista, come fosse divenuta anch'essa parte dell'ambiente che l'avvolgeva.
Era una fanciulla.
Giaceva addormentata su una delle lunghe spiagge bianche che cingevano la costa occidentale, e a vederla così, sdraiata sul fianco col corpo snello accarezzato ora dal sole ora dall'ombra, sola in mezzo al nulla, chiunque, anche il più impassibile tra gli uomini, avrebbe spalancato la bocca e dubitato dei proprio occhi.
Era come un'apparizione, una figura incantevole che pareva esser stata partorita con dolcezza dal mare e lasciata là, sulla candida spiaggia, in attesa d'essere scoperta e destata con un bacio.
Ma la giovane non era un dono delle onde bensì una creatura mortale, le cui vesti dalle bordature in oro e la pelle diafana ne rivelavano la natura nobile.
Era Arianna, principessa di Creta.
Riposava sull'ampio himation di lana che Teseo, il suo amato, si era sfilato di dosso non appena erano sbarcati a Nasso, distendendolo a terra in modo che lei potesse sdraiarsi sulla spiaggia senza che la bella tunica le si riempisse di sabbia. La sua espressione era rilassata, il sonno profondo e appagante; un sonno denso di sogni ed emozioni, che come neve al sole si stava a poco a poco sciogliendo, tanto che la fanciulla iniziava a percepire in lontananza il profumo dell'eroe di cui l'himation era pregno: una fragranza maschile che sapeva di sale e pregiati oli per il corpo, l'unico profumo che avrebbe mai potuto emanare un giovane principe che sfidando la morte si era ricoperto di gloria e che ora, a testa alta e col cuore traboccante d'orgoglio, trascorreva le giornate a navigare per il mare in direzione di casa, impaziente di diffondere la propria leggenda.
Teseo era un ambizioso, un guerriero dall'animo impavido che la natura aveva dotato di notevole fascino, oltre che di gran coraggio e ardore, e Arianna lo amava.
Lo aveva amato dal primo momento che aveva incrociato i suoi occhi bruni a Creta, poco prima che entrasse nel Labirinto di Cnosso, e pazza di lui aveva fatto il possibile per salvarlo da un destino infausto. Sapeva che, in quanto erede al trono di Atene, Teseo era venuto per uccidere il Minotauro, l'orrendo mostro metà uomo e metà toro che viveva rinchiuso all'interno del labirinto e che da anni, con la piena approvazione di Minosse, Re di Creta, si cibava di fanciulli appositamente inviati dalla città attica, suo malgrado sottomessa ai cretesi, così come sapeva che non sarebbe mai stato capace di trovare da solo l'uscita del labirinto, se anche fosse riuscito ad avere la meglio sulla bestiale creatura.
Quello di Cnosso era un labirinto fitto, un'opera d'incredibile ingegno da cui solo Dedalo, il suo costruttore, sarebbe stato capace di uscire. Ma Arianna, che vantava una mente altrettanto brillante e un cuore innamorato che l'avrebbe spinta a fare qualsiasi cosa, aveva escogitato in tutta fretta un sistema per permettere all'amato di ritrovare la via d'uscita: sarebbe bastato un gomitolo di lana, che srotolato durante il percorso gli avrebbe impedito di perdere l'orientamento e gli avrebbe fatto raggiungere in pochi minuti l'unico sbocco del labirinto, che era entrata e uscita allo stesso tempo. Un trucco tanto semplice quanto efficace.
E quando il principe era finalmente uscito, accaldato e sudato per lo scontro con il mostro ma con un sorriso trionfante a illuminargli il viso, Arianna aveva sentito le gambe tremare per l'emozione.
Quanto le era sembrato bello, forte, eroico...

martedì 19 aprile 2016

AMORE NERO (Ade e Persefone)




Silenziosa e dal passo triste come un'anima appena giunta nell'Oltretomba, Persefone sfilò tra le ombre dei defunti nell'immensa Prateria degli Asfodeli, davanti al Palazzo di Ade. L'aria pesante e nebbiosa degli Inferi le entrava dentro ad ogni respiro, soffocandola di malinconia e instillandole un persistente desiderio di pianto, perché tutto di quelle terre così lontane dai verdi e rigogliosi campi della superficie, ai quali era abituata, odorava di morte: il suolo grigio e secco, le torbide acque del fiume Stige, il cielo fosco privo di astri, più simile al fondo di un pozzo maleodorante che a una bella volta celeste...
Persino il più insignificante dei dettagli di quel mondo sotterraneo era intriso di disperazione, quasi i lamenti e le lacrime dei defunti, nel lento fluire dell'eternità, lo avessero in qualche modo corroso incupendone l'aspetto.
Ma la Dea, pur avvertendo gli occhi farsi umidi, ricacciò indietro il desiderio di cedere alle lacrime e proseguì sul suo cammino.
Da quando Ade l'aveva strappata dal regno dei vivi sposandola contro la sua volontà, Persefone aveva cercato conforto nel pianto innumerevoli volte, e le lacrime erano riuscite per qualche minuto ad alleggerire il suo dolore perché nel versarle aveva rivolto le proprie preghiere al padre Zeus affinché intercedesse per lei e la salvasse da quell'oscuro destino. Ma ora che il suo fato era segnato, ora che persino sua madre Demetra si era messa il cuore in pace e aveva accettato quelle circostanze, Persefone sapeva che piangere avrebbe solamente intensificato la sua sofferenza e null'altro.
Avrebbe passato sei mesi dell'anno accanto al suo sposo e gli altri sei in superficie, di nuovo tra le braccia di sua madre.
Così era stato deciso e lei doveva piegarsi al volere degli Dei.
Doveva essere forte. Se lo ripeteva continuamente.
Ma accettare quel destino non era cosa semplice e più il tempo passava più Persefone aveva l'impressione di essere stata seppellita viva: giovane, bella e viva, sotto tonnellate e tonnellate di terra dall'odore nauseante, costretta suo malgrado a farsi del male ricordando con nostalgia i bei momenti trascorsi alla luce del sole, a raccogliere fiori e intrecciare coroncine d'edera e biancospino in compagnia delle sue più care amiche.
Come potrò mai abituarmi a tutto questo? Come potrò mai amare l'uomo che mi ha rovinato la vita?
Persa nei suoi pensieri, Persefone passeggiava tra le ombre decisa a mescolarsi ad esse e ad avere, seppure per qualche istante, l'impressione di svanire nel nulla, dimenticata da tutto e tutti. Ma i defunti, riconoscendo in lei la sposa del Re degli Inferi, le aprivano la strada con deferenza ed evitavano di incrociare il suo cammino offrendole più spazio di quanto desiderasse.
Allora lei si allontanò dalla mischia per ammirarla da lontano e con l'erba ruvida della Prateria degli Asfodeli a farle il solletico sotto i piedi scalzi raggiunse un cipresso bianco, a sinistra del Palazzo di Ade. Ne sfiorò il fogliame con la punta delle dita e lo trovò freddo, quasi la pianta fosse morta da tempo. Per nulla sorpresa calò la mano e volse il capo verso le inquietanti ombre ammassate più avanti.
Il fiume Lete, uno dei cinque fiumi infernali, lambiva la Prateria degli Asfodeli a sud, scorrendo alla sinistra del tempio di Ade. Noto a Dei e mortali con l'appellativo di fiume dell'oblio, attirava le anime dei defunti col potere delle sue scure acque capaci di cancellare ogni ricordo dell'esperienza terrena appena conclusa, piaceri e dolori compresi.
Persefone osservò in silenzio quelle ombre, chine sulle sponde del Lete, e provò invidia per loro. In quanto Regina degli Inferi quelle magiche acque non avrebbero avuto alcun effetto su di lei, se mai avesse avuto il coraggio di berle.
Ormai questo è il mio destino... posso solo attendere il trascorrere dei sei mesi...

lunedì 28 marzo 2016

MIO (Ares ed Eris)

ATTENZIONE:   il racconto contiene scene di sesso esplicito e violenza.


Il Dio Apollo, alla guida del leggendario carro d'oro trainato da cavalli dalla bionda criniera, accompagnò il sole oltre le mura della città di Anfipoli, irrorando con la soffice luce del tramonto quelle aride terre straziate dagli orrori della guerra. E avvertendo sopra e dentro di sé la fine di quell'ennesima giornata rossa di sangue, con un ruggito che scosse il cielo i due generali nemici ordinarono ai propri soldati di indietreggiare e subito quella mischia di uomini pronti a macellarsi l'un l'altro si diradò; gli eserciti si separarono e si ricompattarono pochi metri più indietro; il furore della battaglia si placò ma non si spense, pronto a riaccendersi qualche ora più tardi, alle prime luci dell'alba.
Anfipoli, da anni sotto il controllo diretto di Atene, era per gli ateniesi una base di rifornimento preziosa dalla quale provenivano l'oro, il grano e soprattutto il legname necessario per la flotta, vero pilastro della potenza militare della città attica. E in quanto base di vitale importanza essa aveva conquistato l'interesse degli spartani, determinati a prenderne il controllo al fine di danneggiare la storica rivale; perché quello tra Atena e Sparta era un odio antico, una fiamma che poteva indebolirsi ma che non si sarebbe spenta mai, neppure al calar del sole e al crollare di tutte le energie fisiche e mentali dei militari che da questo astio si facevano guidare.
Separati nei rispettivi schieramenti, i soldati ateniesi e i guerrieri spartani si scrutarono con diffidenza, con le lance ancora ritte e gli scudi alzati, in attesa che fossero gli avversari i primi a calarli e a mostrarsi pronti ad accettare l'interruzione del conflitto per la pausa notturna.
Nel mezzo, in quello spazio immenso dove fino a pochi istanti prima si erano tutti mescolati in un fracasso metallico di spade, lance e urla di rabbia, i feriti si contorcevano agonizzanti: chi folgorato da un pugnale nel petto, chi lacerato da un fendente di spada che gli aveva squarciato una gamba. Gemevano, pallidi per il terrore della morte e per il sangue che dalle ferite scorreva a bagnare il terreno; alcuni di essi, quelli che avevano avuto la fortuna di farsi unicamente tramortire e spezzare qualche osso e che ancora conservavano tutti gli organi interni integri, strisciavano a fatica in direzione dei compagni che avevano rotto le file, spinti dal feroce desiderio di portare in salvo la pelle.
E tra i feriti, i morti giacevano immobili: corpi d'uomini che parevano quasi addormentati e che, anche quella sera, si presentarono alla vista dei soldati sopravvissuti coi quali avevano combattutto fianco a fianco fino ad allora, e senza muovere un solo muscolo né proferendo parola mostrarono loro il lato più oscuro e tremendo della guerra. Uno spettacolo macabro, che nel suo silenzio suonava come una profezia.
Brasida, valoroso generale dell'esercito spartano, fu il primo a spezzare quella tensione. Scrutò un'ultima volta i soldati ateniesi allineati sulle prime file, volse il capo e con la mano fece cenno ai suoi guerrieri di andare a recuperare i feriti: un gesto privo di aggressività, che conquistò la fiducia degli ateniesi che subito calarono le armi.
Ansimanti e stremati, i due schieramenti tornarono sul campo ad assistere i propri feriti. Gli sguardi non si incrociarono, le lance e gli scudi rimasero bassi: per quanto intenso fosse l'odio che legava ateniesi e spartani, nulla poteva contro quella legge morale che imponeva a chiunque, anche al guerriero più truce, di concedere al nemico il diritto di soccorrere i propri feriti al termine della battaglia e di offrire degna sepoltura a chi in quegli scontri aveva perso la vita.
Nessuno avrebbe osato attaccare, non in un simile frangente, e ogni soldato ne era consapevole.
I primi a ricevere soccorso furono i feriti che non avevano perso l'uso delle gambe e che, tra tutti, erano i più vigili: i compagni li sollevarono di peso e li scortarono fuori dal campo, gli ateniesi in direzione del cancello principale della città, gli spartani dalla parte opposta, verso l'accampamento. I feriti giudicati insalvabili non vennero spostati e là rimasero, ad attendere la morte. Sarebbero stati recuperati più tardi insieme ai morti, dopo che si fosse tentato di salvare il maggior numero possibile di unità che nonostante le ferite potevano essere ancora utili per il conflitto dei giorni seguenti.
E in mezzo a quel lento affaccendarsi di soldati a schiena china, intenti a frugare tra i corpi alla ricerca di un commilitone che non fosse irrecuperabilmente moribondo, Eris, Dea della Discordia, saltellava leggera come una fanciulla in un campo di fiori: le ali spalancate, a sfiorare il soffio della brezza serale; i capelli selvaggi, sciolti sulla schiena; la lunga veste nera, che dondolava ad ogni suo passo scoprendole le caviglie.
Sorrideva, appagata da tutta la sofferenza che come un morbo appestava l'aria.
Non era visibile ai mortali, che in quanto tali avrebbero potuto percepire la sua figura solo se lei lo avesse voluto, e ridendo sfilava tra loro concedendosi qualche piroetta di tanto in tanto.
Amava la guerra, l'astio, il rancore e in essi sguazzava, deliziata e incapace di trattenere tutto il piacere e l'euforia che sentiva nel corpo.
Ad un certo punto si fermò.
Chinò il capo e per qualche istante lo fece dondolare a destra e a sinistra con fare pensieroso. Poi si voltò, lanciando un'occhiata alle proprie spalle.
«Fratello!» gridò tornando subito a guardare giù. «Vieni a vedere questo pezzente!»
Ares, Dio della Guerra, era ritto poco più indietro, anche lui invisibile presenza in mezzo ai soldati. Fiero e possente, incarnava l'ideale del guerriero assetato di sangue al quale gli spartani, da sempre suoi fedeli seguaci, si erano rivolti con preghiere assidue e sacrifici rituali affinché li conducesse alla vittoria. E il Dio, a loro completa insaputa, li aveva accontentati scendendo di persona per guidarli alla conquista di Anfipoli.
Ovviamente non si stava sporcando le mani per far loro un favore: di offrire la gloria eterna agli uomini di Sparta o a quell'arrogante di Brasida, che aveva salvato più di una volta da morte certa ma che lui, pieno di sé, continuava a lodare unicamente se stesso e le proprie capacità, ad Ares non importava nulla.
Era là per fare un torto ad Atena, protettrice degli ateniesi.
La Dea della Saggezza e della Guerra Nobile da sempre riteneva i soldati attici di gran lunga superiori agli spartani e Ares era intenzionato a distruggere le sue convinzioni facendo cadere Anfipoli e, di conseguenza, la flotta ateniese della quale la Dea era molto orgogliosa.
Tra i due non correva buon sangue e ogni volta che un popolo devoto al Dio della Guerra si scontrava con gli ateniesi, le cui mire espansionistiche avevano scatenato più di una guerra negli ultimi anni, quegli antichi contrasti si rinvigorivano portandoli a scontrarsi sul campo di battaglia.
Ma ad Anfipoli Atena non si era ancora fatta vedere.
Ares era certo che dall'Olimpo stesse seguendo con regolarità la guerra e che sarebbe scesa tra i suoi soldati non appena questi fossero stati in drammatica difficoltà: perché per il momento la città stava resistendo e, per quanto gli dolesse ammetterlo, erano gli spartani quelli ad aver subito le perdite più ingenti.
Eppure lui non se ne faceva un problema.
Era là per tentare di infastidire e umiliare Atena ma anche, e soprattutto, per divertirsi.
Amava combattere: affondare la lancia nella corazza del nemico, sentire la carne che si apriva, gli organi e le ossa che opponevano resistenza... e poi estrarla, ammirare le gocce di sangue che come rubini scintillavano nell'azzurro del cielo... e quel grido di dolore... il grido straziato di chi non immaginava che si potesse soffrire così tanto...
La guerra faceva parte di lui e gli donava emozioni forti, alle quali non avrebbe mai potuto rinunciare e che Eris, con la sua oscura presenza, contribuiva a rendere ancora più sublimi.
La adorava.
Adorava il suo animo nero, la sua sete di discordia, il modo in cui gli volava intorno nella foga della battaglia, leggera ma tetra come un cattivo presagio. E come gli sussurrava all'orecchio parole di fuoco, spingendolo a fare strage di uomini attorno a sé...
Uccidili, Ares!
Affonda la tua lancia in questi miseri cuori mortali e scaraventali tutti nell'ADE!
Uccidili!
UCCIDILI TUTTI!
Ed eccitato da lei, Ares uccideva fino a non capire più niente, fino a trucidare in quella mischia di guerrieri anche qualche soldato spartano, povera vittima della sua euforia, e dal sorgere del sole fino al suo tramontare uccideva, uccideva e uccideva, senza fermarsi un solo istante.
Ed era meraviglioso.
La guerra era meravigliosa.
Eris era meravigliosa.
Ma quando lei lo chiamò, Ares la guardò con poco entusiasmo, quasi si fosse dimenticato quanto bello fosse contemplarla mentre sfilava tra i morti, con quel sorriso perverso disteso sulle labbra.
Era sfinito, soddisfatto da quell'appagante giornata ma desideroso di ritirarsi. Si era già sfilato l'elmo, ora retto sottobraccio; i capelli erano umidi di sudore, la corazza impolverata e schizzata di sangue nemico.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea, un po' infastidita. «Avvicinati! Guarda quanto è patetica la faccia di questo miserabile!»
Il Dio conficcò con un gesto secco la lancia nel terreno; si levò lo scudo e lo lasciò cadere.
Sorridente e a piedi nudi, Eris salì sull'addome di quel soldato morente disteso a terra e vi si accovacciò sopra, come una ninfa inginocchiata ad ammirare un fiore particolarmente bello.
Il soldato apparteneva all'esercito spartano ma alla Dea, che come il fratello stava supportando Sparta, il suo schieramento non importava. Partecipava alle guerre per puro piacere e non si impegnava affinché un esercito, piuttosto che un altro, salisse sul podio della vittoria. Per lei erano tutti uguali e di essi rideva allo stesso modo.
Accucciata e con lo sguardo ora più acceso, spalancò le ali al massimo della loro estensione e rivelò la propria presenza al guerriero.
E quando gli occhi del pover'uomo incontrarono quelli ambrati della Dea, l'orrore che provò fu più pungente del pugnale che gli aveva perforato lo stomaco. Sussultò e la paura gli fece andare di traverso quel grumo di sangue e saliva che gli riempiva la gola e i polmoni. Tossì e un rivolo di sangue gli scivolò dall'angolo della bocca e corse giù.
«O mortale...» sibilò la dea sorridendo crudele. «Non trascorrere in tal modo i tuoi ultimi momenti di esistenza terrena. È forse così che vuoi essere ricordato? Come un poveraccio che poco prima di discendere nell'Ade si mise a tremare e tossire con occhi lucidi di paura?»
Il guerriero gorgogliò, incapace di proferire parola. Pallido in volto continuava a fissare quella tetra figura sopra di sé, terrorizzato ma incapace di staccare gli occhi da essa. Una lacrima gli scivolò dal bordo dell'occhio e sparì tra la pelle del viso e l'elmo.
Eris si morse un labbro, il suo sguardo si fece più affilato. Piegò le ali a guscio, a cingere il soldato, e in quello spazio protetto gli si avvicinò come se volesse confidare un segreto a lui e a lui solamente. «Desideri piangere, misero mortale? Temi a tal punto la venuta del Dio Thanatos da frignare come una fanciulla? Non provi disgusto per la tua persona?»
Il soldato sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Gorgogliò ancora, soffocato dal sangue che risaliva per la gola e tornava giù, in cavità dove non avrebbe dovuto andare.
Eris si allontanò dal suo viso e chinò il capo, a guardare il pugnale che chissà chi gli aveva conficcato nell'addome. Ne ammirò l'elsa intarsiata, la sfiorò con le dita. «Bello questo pugnale... ottima manifattura. Ti dispiace se quando crepi lo prendo?»
Il soldato non rispose, paralizzato dal terrore, ed Eris sorrise di più, con più gusto ancora. «Lascia che ti aiuti. Così facciamo prima...» sussurrò e con violenza spinse il pugnale a fondo.
Il guerriero scattò all'istante come folgorato, un grido gli striscò fuori dalla bocca. Sollevò le braccia nel tentativo di afferrare il pugnale ma le forze lo abbandonarono.
«Ares!» gridò di nuovo la Dea senza staccare gli occhi dallo spartano. «Sbrigati! Vieni a vedere come piange questo vigliacco, prima che muoia!»
Il Dio rivolse alla sorella un gesto stizzito, di chi non è minimamente interessato. Si voltò, deciso ad andarsene.
Eris, intravedendolo con la coda dell'occhio, estrasse il pugnale facendo di nuovo gemere il guerriero, e ancora lucido di sangue se lo agganciò al cordino che le stringeva la lunga veste sui fianchi. «Te ne vai di già?» domandò alzandosi in piedi.
«Sì.» Il Dio si passò il palmo della mano sulla fronte, ad asciugare il sudore. «Sono stanco.»
«Femminuccia.»
«Taci» replicò secco, voltandosi di nuovo verso di lei. «Sono io che da mattina a sera combatto e uccido sotto il sole senza un attimo di tregua, mentre tu svolazzi allegramente qua e là come un gabbiano molesto senza fare nulla di utile!»
Eris rise sguaiatamente, come se il fratello avesse appena detto la battuta del secolo. «Oh, quanto sei stupido a pensare una cosa simile! Il contributo che do alla causa è evidente. Senza di me al tuo fianco ti saresti già fatto infilzare il didietro da cento ateniesi, quindi ringraziami!»
Ares sputò a terra e si passò il dorso della mano sulle labbra. Con un cenno del capo indicò lo scudo e la lancia abbandonati a terra. «Portameli in tenda» ordinò con tono autoritario. «Dai il tuo contributo alla causa.»
«Scordatelo. Non sono la tua sguattera.»
Il Dio si voltò senza rispondere, privo com'era delle energie e della voglia necessarie per tenere testa alle sciocche provocazioni della sorella, e rapido si incamminò in direzione dell'accampamento degli spartani.
La Dea, come se nulla fosse, riprese a sfilare e danzare di nuovo tra i morti. «Ci vediamo in tenda!» gridò al fratello ormai lontano e lui, con un cenno della mano, le fece capire che l'aveva udita.

venerdì 11 marzo 2016

IL SOLE E L'ALLORO (Apollo e Dafne)




Per il dio del sole il primo amore fu violento e amaro quanto il veleno, e quell’amarezza precipitò dei e mortali nell’oscurità. Non vi fu luce per giorni, la notte prese il controllo del tempo. Apollo trascurò il cielo, dimenticò la lira e i propri doveri perché nulla oramai era più importante di Dafne, la bella ninfa che gli aveva rubato il cuore. Persino la sorella Artemide, dea della caccia e della luna, che dall'alba dei tempi egli inseguiva e corteggiava e che aveva sempre considerato la fanciulla più desiderabile tra tutte, l'unica capace di farlo tremare con un solo sguardo, era scomparsa dai suoi pensieri; svanita, come un pensiero importante smarrito in un attimo di disattenzione. E da quel caos interiore, da quella nebbia mentale che continuava a presentargli il viso dell'amata Dafne, il dio del sole non poteva e non voleva fuggire.
Era tutta opera di Eros, dio della passione amorosa.
Apollo l’aveva ingenuamente offeso e sfidato, sminuendo la potenza del suo arco e di quelle frecce all’apparenza insignificanti, e adesso, punito per la sua presunzione, avrebbe potuto gridare, strapparsi i capelli, graffiarsi il petto e impazzire d’amore per quell’umile ninfa e niente e nessuno avrebbe potuto salvarlo. Le emozioni fluivano dal suo cuore come le lacrime che ogni giorno scendevano a rigargli le guance e quel pianto era doloroso, bruciante, folle. Piangeva quando non poteva vedere Dafne, quando doveva cercarla e aspettare, e la passione che gli ardeva dentro era così intensa da togliergli il respiro.
Vi era stato un altro che come lui aveva lottato per conquistare il cuore di Dafne, facendosi a tutti gli effetti suo rivale in amore: Leucippo, un principe mortale.
Per stare vicino a Dafne, che vergine e diffidente allontanava da sé ogni uomo, il giovane si era travestito da donna guadagnando così la fiducia della ninfa e delle sue compagne, sacerdotesse di Gea, dea della terra nonché madre della fanciulla. E Apollo, per amore di quella vendetta che sapeva di dover gustare fredda al fine di trarre il massimo della soddisfazione, aveva ignorato a fatica il richiamo della gelosia, quella feroce e accecante gelosia che attraverso la voce della dea Eris, signora della discordia e dell'astio, gli aveva sussurrato all'orecchio cercando di accendere il suo desiderio di sangue.
A PEZZI! Fallo a pezzi! Nessuno piangerà mai questo omuncolo senza gloria! Scocca cento frecce su quella testa vuota e squarciala come una noce!
Ma Apollo aveva scelto di non sporcarsi le mani bensì di compiere la propria vendetta con quella squisita eleganza che da sempre lo caratterizzava e della quale era molto orgoglioso. Allora si era insinuato subdolamente nella mente delle fanciulle come una cattiva idea e aveva suggerito loro di officiare i riti sacri nude, per essere più pure al cospetto di Gea. E quando Leucippo era stato smarcherato il dio aveva riso di gusto, e quanto era stato bello ridere dopo tanto tempo! C'erano state grida, suppliche, lacrime: il giovane si era prostrato a terra disperato ma le sacerdotesse di Gea non avevano perdonato quell’infamia, quel disgustoso tentativo di insidiare Dafne con l'inganno, e decise a lavare via l'onta lo avevano ucciso. Nessuna pietà per i traditori.
E ora che Leucippo era morto, fra Apollo e la sua graziosa ninfa non vi erano più ostacoli. Ora sarebbe stato tutto più facile, il vero amore avrebbe trionfato, e come rinvigorito da quella consapevolezza il sole splendeva di nuovo, più meraviglioso che mai. Il dio era raggiante.

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Quella mattina Dafne era andata al bosco e Apollo lo sapeva: la stava cercando. Si sarebbe dichiarato a lei e le avrebbe mostrato tutta la sua luce, il suo amore, la sua devozione. Ritto e sicuro di sé, non era scosso da moti di timidezza né da quelle sciocche paranoie tipiche dei mortali innamorati. Non temeva un rifiuto: era un dio, il più bello dell’Olimpo e per questo Dafne l’avrebbe amato. Apollo ne era certo.
Ma egli non sapeva che Eros aveva trafitto il cuore della ninfa con una freccia di piombo: una freccia spuntata, differente da quelle d’oro dell’amore, che avrebbe portato la fanciulla a reagire con orrore e repulsione alla passione del dio. Era già tutto scritto, tutto deciso, ma i due ancora non lo sapevano. 
Eccola!
Apollo sentì un piacevole tuffo al cuore. Dafne era là, accucciata accanto a un cespuglio di rovi. Stava raccogliendo delle more; la veste turchese, i capelli raccolti con cura sopra la nuca, i piedi nudi e perfetti, da dea…
Apollo, voglioso di stringerla fra le braccia e incapace di resistere ancora, le fu davanti.
«Sei tu» disse porgendole morbidamente la mano. «Dolce figlia di Peneo e della Terra. Dafne. Mia musa e unico amore.»
La ninfa, sorpresa, sollevò gli occhi color nocciola e incontrò quelli verdi del dio. Subito scattò in piedi. Le more le caddero dalle mani, il corpo intero si irrigidì. «Ti prego, vai via!» esclamò facendo un passo indietro.
Quelle parole colpirono Apollo in pieno viso come uno schiaffo. Arrossì violentemente, ritirò la mano: non era preparato a ricevere un rifiuto. Abbozzò un sorriso incerto che in un attimo si fece trionfante. Decise di offrire subito il meglio di sé. «La tua ingenuità parla per te, ma lo comprendo. Sono il dio Apollo, fanciulla. È mio il sole che ti accarezza le gote al mattino, e mia è la luce che ti accompagna quando ti incammini al tempio a pregare. Il mio nome ti è noto e io ora sono qua, dinnanzi a te. Sei bella, Dafne. Libera come la brezza della sera ed elegante quanto Afrodite. Da troppo tempo questo dio piange per te. Ti prego, rendilo degno del tuo amore. Non rifiutare.» Apollo tese di nuovo la mano alla ninfa più splendido che mai: alto, biondo, sorridente. Nessuna mortale sarebbe stata così folle da rifiutarlo ed egli lo sapeva bene.
Ma Dafne era immune al suo fascino e ne sembrava addirittura terrorizzata. Scosse la testa in segno di rifiuto e rapida si voltò, decisa ad andarsene.

mercoledì 24 febbraio 2016

MEDUSA (Medusa e Poseidone)


  ATTENZIONE:   il racconto contiene scene di sesso esplicito.



Non era la prima volta che i celesti occhi d’acqua di Poseidone si posavano su una fanciulla, mossi dalla bramosia d’amore. Molte erano state le ninfe e le mortali che aveva amato prima di allora, e nessuna mai era riuscita a sfuggirgli: coloro che avevano tentato erano state prese con la forza, sollevate fra le braccia come sacchi di semi e possedute come prostitute.
Passionale e selvaggio con una spiccata tendenza all’ira, il dio dei mari non conosceva pazienza né rinuncia e quando le frecce di Eros lo colpivano, la bella amata, oggetto dei suoi desideri, fosse essa vergine, moglie o persino dea, doveva essere sua. La pace nel suo cuore lasciava il posto all’inquietudine, alla voglia feroce; l’abbraccio della fanciulla gli donava serenità, il suo rifiuto lo infuriava e con lui si infuriava il mare. Ed ecco che quella tempesta d’amore si faceva schiuma, vortici, onde colossali, ricurve come artigli. Il mare graffiava se stesso e si tormentava ma quando Poseidone, stretto alla sua amata, rilasciava in lei il suo seme, la furia svaniva assieme al desiderio e le acque tornavano placidi e silenti.
Era questo l’amore per il dio: un miscuglio di sesso, prepotenza e passione violenta che lo portava a credere ogni volta che l’amata non avrebbe osato oltraggiarlo con un rifiuto. No, impossibile. L’avrebbe stretto a sé, baciato e amato come lui l’amava perché era bellissima, incantevole, una creatura soave e irresistibile, incapace di possedere in sé il germe della malignità e dell'egoismo.
Questo era ovviamente uno dei tanti inganni di Eros, e Poseidone, con l’estinguersi e il riaccendersi della passione capiva, imparava e ricadeva nei suoi stessi errori di continuo, come tutti gli innamorati.
E quella volta non fu differente dalle altre.

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La fanciulla si chiamava Medusa. Pelle di luna e una cascata di riccioli neri come la notte a incorniciare un timido sorriso, Medusa sfoggiava la bellezza semplice della gioventù e forse fu proprio quella beltà priva di pretese a rapire il cuore di Poseidone.
Quando la vide la prima volta, seduta in riva al mare in compagnia delle sorelle, il dio decise che avrebbe dovuto averla e in pochi istanti la scintilla dell’amore si fece incendio.
Si impose di aspettare e al calar del sole, quando le fanciulle lasciarono la spiaggia, Poseidone uscì dal mare accompagnato dalle onde; i capelli turchini sciolti sulle spalle, la veste bianca, il portamento solenne. Seguì le giovani che risalivano a piedi nudi la collina; gli occhi azzurri fissi su Medusa che splendida e leggera come una gatta percorreva il sentiero cinto dai rovi. Le sorelle ridevano, mano nella mano, ignare di essere seguite. E quando nel buio della sera apparve il colonnato esterno della polis, Poseidone si fermò.
Ardente di passione guardò un’ultima volta Medusa, la sua bella schiena, i suoi capelli corvini, e la lasciò andare.
Non era ancora il momento. Si voltò e se ne andò.
La mattina seguente, dalle profondità cobalto del mare, il dio risalì deciso a prendersi l’oggetto del suo amore. In un turbinio di spuma e bolle sfrecciò verso il cielo e quando squarciò la superficie dell’acqua si trasformò in una magnifica aquila marina dalla testa bianca e possenti ali brune. Irriconoscibile, lasciò il mare e volò in direzione della polis.
Non ci mise molto a trovare Medusa: era all’uliveto, da sola, all’ombra delle fronde.
Fulminea, l’aquila si lanciò sulla sua preda, in picchiata. Medusa non la vide arrivare e quando la percepì addosso fu troppo tardi: le zampe dai lunghi artigli arcuati le ghermirono le braccia e un battito d’ali la sollevò subito da terra. Sentì l’aria scompigliarle i capelli, il corpo farsi leggero.
L’aquila prese il volo.
Terrorizzata, la ragazza gridò con quanta voce aveva in corpo e d’istinto si aggrappò con entrambe le mani alla cosa che la teneva per le braccia: non capì cosa fosse, sentì solo che era dura e ruvida. Il vento freddo le si schiantò addosso, le scombinò la tunica. Medusa vide gli ulivi farsi sempre più piccoli: i campi di orzo, il colonnato della polis, il ruscello oltre le mura, ora sottile come un capello. Cercò di sollevare la testa per vedere cosa la stesse tenendo stretta ma non vi riuscì: l’aria che le schiaffeggiava il viso e le tirava i capelli le rendeva impossibile tenere gli occhi aperti.
Paralizzata dalla paura, Medusa esaurì in pochi istanti le proprie energie: la voce svanì, i muscoli si fecero molli, il corpo perse sensibilità. Il panico, troppo intenso per una giovane fanciulla, fu sul punto di farla svenire quand’ecco che lo stomaco, che l’altitudine aveva reso simile a una bolla piena d’acqua, le mandò un segnale inequivocabile: stavano scendendo.
Medusa lottò contro quel principio di mancamento e riuscì a recuperare il controllo di sé. Cercò di aprire gli occhi e ci riuscì senza difficoltà: ora l’aria era morbida e calda, di nuovo accogliente. L’emozione le restituì di colpo le energie, il viso riprese colore, le forze tornarono a scaldarle i muscoli. Sollevò lo sguardo e vide l’aquila; sfiorò con le dita le sue zampe, sentì gli artigli che come bracciali di ferro le bloccavano le braccia. Terrorizzata si agitò nel vano tentativo di liberarsi fino a quando un’ombra improvvisa la costrinse a guardare di nuovo in avanti.
Una colonna di marmo, immensa, le apparve di fronte ed ella gridò e chiuse gli occhi, preparandosi allo schianto.
Ma l’aquila virò all’ultimo, infilandosi oltre al colonnato.
Tremante, Medusa si guardò intorno e capì subito di essere all’interno di un tempio. Vide la statua di donna sul fondo dell’edificio. Colossale come quelle che solitamente venivano dedicate a Zeus, sfoggiava con fierezza un elmo e una lunga lancia acuminata: era Atena, la dea della saggezza e della guerra nobile.
Quando fu vicina al pavimento l’aquila mollò la presa e la fanciulla si accasciò. Con un ultimo battito d’ali l’animale volò davanti all’altare in pietra e si fermò accanto alla statua della dea.
Medusa, seduta a terra col cuore che le pulsava nel petto e nelle tempie, la guardò e quando l’aquila distese le ali e iniziò a cambiare sussultò sgomenta. Il piumaggio bruno si fece tunica, la bianca testa mutò in viso d'uomo e capelli turchesi, le possenti ali divennero braccia robuste che lente si incrociarono sul petto.
Il dio Poseidone si rivelò all'amata in tutta la sua magnificenza. Il suo sguardo era duro, freddo come il ghiaccio nonostante la passione che gli ardeva dentro.
<<Timida Medusa, figlia di Forco e Ceto. Non tremare in quel modo>>, disse e la sua voce ferma echeggiò nel tempio di Atena. Tese una mano verso la fanciulla. <<Sai chi sono e sai cosa voglio. Il tuo bel volto mi turba, la chioma che lasci cadere selvaggia sulle spalle è per me fonte di profondo incantamento e brama. Avvicinati. Donati al dio del mare, la cui acqua brillante rapisce la tua attenzione e i tuoi pensieri quando sola cammini sulla spiaggia. Fa’ di te un dono per il tuo dio, non esitare. Stringi questa mano e rendilo felice.>>
Intimidita, Medusa fece un passo indietro. Scosse la testa, distolse lo sguardo. <<P-perdonatemi...>> mormorò. <<Lasciatemi andare, ve ne prego.>>
Poseidone strinse gli occhi, offeso. Ritirò la mano.
<<Perdonatemi!>> Medusa si voltò e cercò di fuggire ma il dio, fulmineo, l’afferrò per un polso. Una fitta di dolore improvviso la fece gridare.
<<DONATI A ME, FANCIULLA! NON ESSERE SCIOCCA!>> gridò Poseidone rosso in viso. Con uno strattone avvicinò Medusa a sé facendola schiantare sul suo possente petto. <<Non oltraggiarmi in questo modo! Io ti voglio!>>
Stretta fra le forti braccia del dio, Medusa si lasciò sopraffare dal panico.
<<No! Lasciatemi! No!>>
Come una giumenta imbizzarrita cercò di divincolarsi e scappare, aizzando ancora di più la passione e l’ira di Poseidone che voglioso le bloccò entrambi i polsi e la accompagnò giù, sul pavimento, dove le fu subito sopra.

lunedì 15 febbraio 2016

IL CASTIGO DEL CACCIATORE - (Artemide e Atteone)

ATTENZIONE:   il racconto contiene scene di violenza e allusioni sessuali.



  La valle della Gargafia coi suoi cipressi, i faggi e i pini dal fusto sottile era una morbida conca fra le colline a est di Platea, nel cuore della Grecia. Una selva ai più sconosciuta, nella quale si poteva trascorrere il pomeriggio o tutta la vita, a cacciare cerbiatti, stanare cinghiali o anche solo ad ammirare i raggi del sole che a fatica bucavano la tela di rami e foglie che fitta oscurava il cielo.
E in quell'incantevole porzione di mondo abbellita da ruscelli d’acqua pura, grotte umide e castagni dalla corteccia profumata, la dea Artemide, sudata e stanca a causa di quella preda che ancora non si faceva vedere, decise di concedersi un bagno in compagnia delle sue ancelle.
Raggiunse uno specchio d'acqua incorniciato dai faggi e ne ammirò la superficie: l'acqua era fresca e pulita. Depose l'arco d'oro e le frecce e si sfilò piano la veste. Le graziose ninfe la imitarono, ridendo briose.
Il sole illuminò quei corpi d'avorio; la sua luce scivolò come un velo sui seni nudi e sui fianchi, scaldandoli.
Artemide si sciolse i capelli ed entrò in acqua per prima.
<<Non è fredda>>, disse e le ancelle si avvicinarono, ancora un po' titubanti. Con le mani a coppa la dea raccolse l'acqua e per gioco la lanciò alla fanciulla nuda alla sua sinistra.
<<Ah!>>, gridò ella proteggendosi come meglio poté. Si chiamava Anthia: era giovane e bella, con grandi occhi azzurri e capelli color grano. Sorrise e rispose allo schizzo, con fare battagliero.
Artemide rise e fra lei e le ninfe scoppiò una vivace guerra d'acqua. Si bagnarono, risero, si spinsero l'un l'altra nel tentativo di trascinarsi per gioco dove l'acqua era più profonda e infine si calmarono. Qualcuna andò a sedersi a riva, qualcun'altra stese sui rami dei faggi una veste che si era inzuppata per sbaglio, qualcun'altra ancora si rilassò accarezzando con la mano umida la schiena di una compagna.
Sotto il sole della Gargafia, Artemide e le sue fanciulle si rinfrescarono con grande piacere.

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Vigile e attento come il più esperto dei cacciatori, il principe Atteone scivolò nelle verdi profondità della selva, veloce come un soffio di vento. La fronte aggrottata, l’arco fra le mani; saltò arbusti, penetrò tra le foglie, si graffiò il volto ma non si fermò. Stava cercando il cinghiale: quello era l'obiettivo, il trofeo della giornata, ed egli era deciso a non lasciarselo scappare.
Era un abile cacciatore, uno dei migliori: allievo del centauro Chirone aveva appreso da lui l’antica arte della caccia e di quei preziosi insegnamenti aveva fatto tesoro al punto che ormai erano ben poche le prede in grado di sfuggirgli.
Si portò il pollice e l’indice alla bocca. Fischiò. Gli ultimi tre cani della muta, una cinquantina in totale, splendide creature dal corpo slanciato e muscoloso, recuperarono terreno. Erano rimasti indietro ma chiamati dal padrone sfracciarono subito tra gli arbusti, sollevando grosse zolle di terra nella frenesia della corsa.
Atteone fece loro un cenno: avanti, avanti!, e il branco si unì correndo compatto dietro alla preda. Si udirono gli ultimi fruscii sulle foglie ed ecco che gli abbai sfumarono, si fecero lontani. I cani arrivano sempre prima del cacciatore, si sa.
Atteone sorrise, accelerò il passo e… si fermò.
Voci.
Risate di donne. Acqua che schiocca.
Cos’è?
Il principe tese l’orecchio e volse il bel viso verso ovest. Ebbe un'intuizione e un sorriso deliziato gli illuminò il volto. I cani erano scomparsi, il cinghiale dimenticato: la curiosità e quelle dolci voci lo spinsero ad abbandonare il cammino ed egli si lasciò guidare da esse. Si tuffò nella selva proteggendosi gli occhi: i rami gli graffiarono le braccia, le foglie gli solleticarono la fronte. Spinto dalla curiosità Atteone fu sul punto di cadere, tradito da una radice sporgente, ma si sostenne a una quercia e proseguì, più veloce di prima. Sfilò tra castagni e betulle, attraversò a passo svelto un boschetto di alti faggi e finalmente le vide.
Là, davanti a sé.
Bellissime fanciulle.
Tremendamente vicine, a pochi passi di distanza.
Atteone si bloccò sgomento e si appiattì dietro al tronco di un grande faggio. Il cuore gli batteva forte, come impazzito: non si era aspettato di trovarle così vicine, a pochi metri da sé. Immobile, i palmi delle mani incollati alla corteccia, il principe sollevò lo sguardo.
Due delle fanciulle sedevano a terra, sull'erba calda del pomeriggio: una era intenta ad acconciare i capelli all'altra e di tanto in tanto le baciava il collo.
Erano tutte nude e belle. Si chinavano sullo specchio d'acqua a inumidirsi le mani e le guance con la disinvoltura di chi non sa di essere scrutato da occhi indiscreti; i glutei tondi, le cosce morbide, i capelli lunghi e boccolosi…
Atteone, stregato dallo splendore di quella visione, pensò che avrebbe potuto stare tutta la vita ad ammirare quelle bellezze.
E quei baci...
Si baciavano spesso quelle fanciulle: sulle labbra, sulle spalle, sul seno…
Atteone vede le due sedute davanti a sé scambiarsi un bacio con la lingua e sorridersi, e una fitta dal significato inconfondibile lo colpì sotto la cintura. Sentì le guance avvampare, il respiro farsi più pesante.

venerdì 5 febbraio 2016

GELOSIA - (Afrodite, Adone e Ares)

   Attenzione: il racconto contiene scene di violenza.


Monte Libano.
Un tempio a cielo aperto dalle colonne di corteccia e l’aria che profuma di rugiada, esplosione di verdi aceri, ginepri e querce dalla chioma possente sotto la quale trovare riparo durante le ore di massima calura. E proprio là, sotto a una di quelle querce ombrose, la dea Afrodite sollevò la sua bianca veste dalle rifiniture d’oro e si sedé. L’erba era morbida come un tappeto, fresca quanto la brezza che solleticava le foglie e le ghiande sui rami. Afrodite, lunghi capelli ramati e occhi blu oceano splendidi come gemme, era raggiante: le labbra distese in un tenue sorriso, lo sguardo rivolto al bell’Adone, suo amante. Era innamorata e l’amore la rendeva più incantevole che mai.
E anche il giovane Adone, figlio di re Cinira, sfoggiava una bellezza senza eguali. Riccioli bruni, occhi dolci e profondi, corpo da atleta; il ragazzo era un mortale come tanti ma il suo fascino era divino e la dea ne era stata conquistata fin dal primo istante in cui i loro sguardi si erano incontrati.
Adone si avvicinò ad Afrodite; la muta di levrieri alle spalle, il capriolo trascinato per i palchi con la freccia ancora conficcata nel collo. Il giovane era un grande cacciatore e non ci aveva messo molto ad impadronirsi di quella preda, caduta sotto agli occhi ammirati della dea che da giorni lo accompagnava nei boschi per le battute di caccia.
Lasciò il capriolo e si sedette sotto la quercia accanto ad Afrodite.
<<Desidero un cervo. Un semplice capriolo non è degno di Voi.>>, disse. La voce era bassa e stanca ma gli occhi brillavano di passione. <<Ne catturerò uno prima del tramonto.>>
Afrodite sorrise. Con delicatezza spostò una ciocca dalla fronte sudata del giovane. <<Mio bell’Adone, non ti angustiare. Non ne hai motivo. Dimentica il cervo e riposa. Sei affaticato, lascia che le mie carezze ti donino sollievo.>>
<<Siete tanto dolce e bella...>>, replicò il ragazzo mentre la dea gli accarezzava il collo. <<La Vostra bellezza delizia i miei sensi. È profumo di fiordaliso, vino d’uva pregiata, la prima mela che placa la fame… è un piacere che non mi stanca mai.>>
<<Anche la tua bellezza è per me fonte di piacere, meraviglioso amante mio...>>, disse Afrodite poggiando il capo sulla spalla del giovane. <<Ammirarti mi dà gioia, il tuo bel volto è per me luce e ispirazione e orgoglio perciò lascia che io goda di te, perché questo e solo questo mi offre appagamento...>>
Alle parole della dea seguì il silenzio.
Adone, rilassato, socchiuse gli occhi e si lasciò stordire da quelle lievi carezze al petto, senza dire più nulla. E Afrodite, profondamente affascinata da quel bel viso dai tratti delicati che avrebbe potuto superare in bellezza persino il divino Apollo, pensò che mai e poi mai avrebbe ceduto quel ragazzo ad un’altra, dea o mortale che fosse.
Perché vi era davvero un’altra.
Un’altra che, come lei, desiderava l’avvenente Adone tutto per sé perché di lui si era perdutamente innamorata.
Il suo nome era Persefone. 
Anche lei, moglie di Ade, dio degli Inferi, era attratta dal giovane e per lui aveva apertamente sfidato Afrodite senza timore alcuno, e per risolvere la disputa era stato necessario l’intervento della saggia musa Calliope, che aveva deciso di offrire Adone a entrambe le contendenti per uguale periodo di tempo. Il giovane avrebbe quindi passato quattro mesi dell’anno con Afrodite, quattro mesi con Persefone e i restanti quattro con una persona di sua scelta; così aveva deciso la musa. Ma quella sentenza aveva lasciato insoddisfatta Afrodite, che aveva così deciso di rubare a Persefone il tempo a cui aveva diritto e tenersi Adone solamente per sé, sempre. Non l’avrebbe lasciato: era suo e suo soltanto e nessuno glielo avrebbe portato via.
<<Voglio un tuo bacio, Adone...>>, sussurrò la dea. <<Baciami ancora e ancora. Dimmi che sono bellissima e che nulla, in cielo, in terra e in mare è meraviglioso quanto noi due insieme...>>
<<Il vostro divino corpo è eleganza e incanto e splendore. Bellissima, Voi, mia Afrodite, che ingenuamente sperate che qualche parola sussurrata da questo insignificante mortale sia in grado di descrivere la Vostra accecante beltà. Ciò che dico è poco, conta meno del capriolo steso ai nostri piedi. Vorrei appagarvi, offrirvi di più e di meglio ma le parole e i miseri doni sono nulla di fronte a Voi, credetemi. Perciò Vi prego, non chiedetemi parole né poesia né canti. La mia mediocrità Vi offenderebbe. Accettate le mie labbra in silenzio e unite la Vostra bellezza alla mia, e amatemi. Amatemi, mia Afrodite...>> Adone prese fra le mani il viso della dea e i due si baciarono a lungo all’ombra delle querce.

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Dai celesti cieli dell’Olimpo, Ares, oscuro dio della guerra e della violenza, vegliava con cuore furente su quell’amore. Dritto come un soldato pronto alla battaglia, l’elmo sul capo e i muscoli tesi, spiava la bella dea e il suo amante e ad ogni bacio e carezza i suoi occhi d’ambra si facevano più accesi. Il mantello rosso, la lancia stretta nel pugno, le labbra serrate in una smorfia di odio e gelosia.
Ares amava Afrodite e la sua passione era da tempo immemore ricambiata dalla dea, che coi suoi morbidi abbracci gli rendeva più dolce il ritorno sull’Olimpo dopo ogni battaglia. Erano uniti, per sempre stretti nella morsa di Eros, e sebbene ci fossero altre fanciulle ad allietare le sue notti di tanto in tanto, Ares sentiva di appartenere ad Afrodite e sapeva di avere il suo amore. Ed era pientamente consapevole che quelli della dea erano insulsi capricci d’amore, nulla più che frivolezze passeggere, ma vedere le mani di quel mortale correre indisturbate sul suo corpo, sulla sua adorata dea, lo faceva bruciare d’ira.
E mentre era là, immobile, a spiare le tenere effusioni dei due, la triste Persefone gli parlò dagli Inferi dove era costretta a regnare per sei mesi all’anno accanto al suo sposo.
Sussurrò all’orecchio del dio, gli fu vicina seppure lontana.
<<Povero Ares...>>, mormorò con un tono che era compatimento e scherno assieme.
Il dio fece una smorfia. Capì subito chi gli stava parlando e intuì cosa gli sarebbe stato detto di lì a poco. Si voltò di nuovo verso gli amanti.
<<Adone è bello...>>, continuò Persefone. <<Bello quanto il sole e la luna. Il suo corpo è perfetto, integro e puro come un giglio e con cotanto fascino non puoi competere, tu, dio del sangue e della mera brutalità. Il tuo viso è scuro, il tuo sguardo assetato di grida e rosse ferite. In te vivono la guerra, la distruzione, il furore. Non puoi competere con la sua bellezza.>>
Persefone lasciò che qualche secondo di silenzio marcasse le sue parole.
Era in cerca di vendetta: Afrodite aveva osato sfidarla e portarle via Adone non rispettando così il volere di Calliope e le avrebbe fatto pagare questo affronto. Trascinata negli Inferi con l’inganno, Persefone non tollerava più menzogne e tradimenti ed era decisa a manipolare il dio della guerra per vendicarsi della bella dea.
Rincarò la dose, più determinata che mai. <<Accetta la sconfitta, Ares. Su questo campo Adone ti batte. O stai davvero pensando di gareggiare tra i belli? Tu?>>
<<Non ti permetto di parlarmi in questo modo, donna!>>, ringhiò il dio adirato. <<Taci, che non sai nulla!>>
<<So quello che sanno e vedono tutti: Afrodite preferisce Adone a te. Ma non è mia intenzione infierire né tormentare le tue ferite d’orgoglio e ti chiedo perdono se le mie parole hanno accresciuto la tua rabbia. Esprimere la mia pena per te, questo era il mio unico desiderio. Addio, Ares.>>, disse Persefone e tacque.
Di nuovo solo con la propria gelosia, Ares sentì l'ira crescere e bruciargli nel petto. E più le mani di Adone scorrevano sulla pelle di Afrodite, più il battito del dio aumentava; i pugni tremanti, lo sguardo infuocato, il viso contratto in un ringhio da belva. La gelosia, così simile al furore che sempre lo spingeva a tuffarsi in battaglia, si impossessò di lui e lo dominò.
<<Bastardo d'un mortale...Ora vedrai.>>, ruggì fra i denti e si allontanò.